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Bourges – Hôtel Lallemant, Caissons – Serie IX

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Ritorniamo ad esaminare  i Caissons dell’Hôtel Lallemant:

Questo terzetto, il penultimo, ci offre tre rappresentazioni tipiche d’Alchimia.

Cassone 23 – Il Livre Ouvert.

Fulcanelli accenna solo descrittivamente a questo Caisson:

Nous remarquons aussi le livre ouvert dévoré par le feu; …”.

[Le Mystère des Cathédrales – 1926, p. 134]

A proposito del libro – come indicato anche dall’amico ‘ijnuhbes’ – Fulcanelli scriverà in seguito:

Nous avons eu, à maintes fois déjà, l’occasion d’expliquer le sens du livre ouvert, caractérisé par la solution radicale du corps métallique, lequel, ayant abandonné ses impuretés et cédé son soufre, est alors dit ouvert. Mais ici une remarque s’impose. Sous le nom de liber et sous l’image du livre, adoptés pour qualifier la matière détentrice du dissolvant, les sages ont entendu désigner le livre fermé, symbole général de tous les corps bruts, minéraux ou métaux, tels que la nature nous les fournit ou que l’industrie humaine les livre au commerce. Ainsi, les minerais extraits du gîte, les métaux sortis de la fonte, sont exprimés hermétiquement par un livre fermé ou scellé. De même, ces corps, soumis au travail alchimique, modifiés par application de procédés occultes, se traduisent en iconographie à l’aide du livre ouvert. Il est donc nécessaire, dans la pratique, d’extraire le mercure du livre fermé qu’est notre primitif sujet, afin de l’obtenir vivant et ouvert, si nous voulons qu’il puisse à son tour ouvrir le métal et rendre vif le soufre inerte qu’il renferme. L’ouverture du premier livre prépare celle du second. Car il y a, cachés sous le même emblème, deux livres fermés (le sujet brut et le métal) et deux livres ouverts (le mercure et le soufre), bien que ces livres hiéroglyphiques n’en fassent réellement qu’un seul, puisque le métal provient de la matière initiale et que le soufre prend son origine du mercure.”.

[Les Demeures Philosophales – 1939, p. 304]

Ed ecco la mia personale traduzione:

“Abbiamo avuto, già più volte, l’occasione di spiegare il senso del libro aperto, caratterizzato per mezzo della soluzione radicale del corpo metallico, il quale, avendo abbandonato le proprie impurità e ceduto il suo zolfo, vien allora detto aperto. Ma qui si impone una precisazione. Sotto il nome di liber e sotto l’immagine del libro, adottati per qualificare la materia detentrice del dissolvente, i saggi hanno inteso designare il libro chiuso, simbolo generale di tutti i corpi grezzi, minerali o metalli, così come ce li fornisce la natura o come l’industria umana li consegna al commercio. Così, i minerali grezzi estratti dal giacimento, i metalli ottenuti dalla fusione, sono espressi ermeticamente per mezzo di un libro chiuso o sigillato. Allo stesso modo, questi corpi, sottoposti alla lavorazione alchemica, modificati per mezzo dell’applicazione dei processi celati, si traducono nell’iconografia grazie all’aiuto del libro aperto. È dunque necessario, nella pratica, estrarre il mercurio dal libro chiuso che è il nostro soggetto primitivo, al fine di ottenerlo vivente ed aperto, se vogliamo che possa a sua volta aprire il metallo e rendere vivo lo zolfo inerte che racchiude. L’apertura del primo libro prepara quello del secondo. Perché ci sono, nascosti sotto il medesimo emblema, due libri chiusi (il soggetto grezzo ed il metallo) e due libri aperti (il mercurio e lo zolfo), benché questi libri geroglifici non ne facciano realmente che uno solo, dato che il metallo proviene dalla materia iniziale e che lo zolfo trae la sua origine dal mercurio.”.

Il brano qui proposto proviene da uno dei Capitoli che amo di più, e che sono tra i più indicativi per la pratica Filosofale prima, e di Laboratorio poi: Les Gardes du Corps de François II, nella sezione dedicata allo studio della statua della Justice.

Lo studioso/studente potrà riflettere al meglio sulle chiare e preziose indicazioni di Fulcanelli, avvertendo che – more solito – le sue parole vanno ben comprese: per quanto veritiere e concise, Fulcanelli non scrive mai in modo banale.

Ma, tanto per sottolineare la ‘facienda’ – vale a dire ‘il da farsi’ – dei ‘processi celati’ cui accenna Fulcanelli, ecco un altro passo (ma ve ne sono ovviamente altri) che pare riferirsi sempre al doppio libro (che sono in realtà quattro ‘cose’; sebbene una certa cautela sia d’uopo quando si volesse tentare l’esatta comprensione di ciò che ha voluto comunicare), che riporto tal quale, la cui traduzione è molto semplice:

Ce livre fermé, symbole parlant du sujet dont se servent les alchimistes et qu’ils emportent au départ, est celui qui tient avec tant de ferveur le second personnage de l’Homme des Bois; le livre signé de figures permettant de le reconnaître, d’en apprécier la vertu et l’objet. Le fameux manuscrit d’Abraham le Juif, dont Flamel prend avec lui une copie des images, est un ouvrage du même ordre et de semblable qualité. Ainsi la fiction, substituée à la réalité, prend corps et s’affirme dans la randonnée vers Compostelle. On sait combien l’Adepte se montre avare de renseignements au sujet de son voyage, qu’il effectue d’une seule traite. « Donc en ceste mesme façon, se borne-t-il à écrire, je me mis en chemin et tant fis que j’arrivais à Montjoie et puis à Saint-Jacques, où, avec une grande dévotion, j’accomplis mon vœu. » Voilà, certes, une description réduite à sa plus simple expression. Nul itinéraire, aucun incident, pas la moindre indication sur la durée du trajet. Les Anglais occupaient alors tout le territoire : Flamel n’en dit mot. Un seul terme cabalistique, celui de Mont-joie, que l’Adepte, évidemment, emploie à dessein. C’est l’indice de l’étape bénie, longtemps attendue, longtemps espérée, où le livre est enfin ouvert, le mont joyeux à la cime duquel brille l’astre hermétique2. La matière a subi une première préparation, le vulgaire vif-argent s’est mué en hydrargyre philosophique, mais nous n’apprenons rien de plus. La route suivie est sciemment tenue secrète.”.

[Les Demeures Philosophales – 1939, pp. 172-3]

A titolo di commento, val la pena di dire, credo, che Fulcanelli indica con chiarezza che il famoso ‘Viaggio a Compostella’ è una metafora; nulla di più. E che il termine Mont Joie indica un Cairn, che in Inglese è un monticello di rocce/pietre, usato sia come marker di un percorso (montano, per esempio), sia come luogo di raduno dei soldati sul campo di battaglia: forse da questo è diventato celeberrimo il grido Mont Joie – Saint Denis, urlato orgogliosamente dai cavalieri di Carlo Magno, radunati attorno ad un altro marker, reso celebre da La Chanson de Roland: l’Oriflamma; quest’ultimo, oltre ad essere una lunga banderuola rosso scarlatto appiccata sulla cime di una lancia, può far sorridere l’alchimista accuorto: il termine suona un po’ come … l’origine della fiamma (si dice che Carlo Magno stesso lo portasse con la lancia in Terra Santa come arma per sterminare i Saraceni!; … o tempora, o mores!); così, in allegria, si chiude il mio personale esame del libro, aperto, tra le fiamme: la lancia di Carlo Magno, il Mont-Joie, ci conduce dritti dritti a Lancilotto – studiate, please, il magnifico Lo Chevalier de la Charette di Paolo Lucarelli – , che è Lancelot, l’Angioletto! … ohibò, sarà forse per questo che il Plafond dell’Oratoire (!) è zeppo di Angioletti e di tre Livres ouverts ????

3 ??? … Oh, my God!

Cassone 24 – La Colombe.

Fulcanelli: “… la colombe auréolée, radiante et flamboyante, emblème de l’Esprit; …”.

[Le Mystère des Cathédrales – 1926, p. 134]

Anche in questo caso, a mio parere, questo Caisson centrale rappresenta il risultato di ciò che è causato dalle azioni/operazioni legate ai due Caissons laterali; si tratta, in tutta evidenza, della Colomba rappresentante l’Esprit, più esplicitamente le Saint Esprit, più alchemicamente ed operativamente, l’Esprit Universel.

[Disegno di J.J Champagne]

Questo topos alchemico è così tipico, così ‘parlante’, così famoso, che non credo necessiti di commenti in questo piccolo studio: si sta parlando della discesa (meglio: dell’attrazione) dell’Esprit Universel NELLA Materia. Fulcanelli, laconicamente, indica soltanto che essa Colombe è sia Aureolata che Radiante che Scintillante/Fiammeggiante! … e questa precisione dei tre-aggettivi-tre mi pare derivare da una sua cultura più legata ad una Fisica (à la Louis de Broglie, per esempio) che soltanto squisitamente ermetica; beninteso, per non turbare troppo gli animi, è solo una mia opinione, eh?

En passant, oltre che segnalare che il Flamboyant è anche una bellissima arborescenza di color rosso caldo, il termine ha anche questi sinonimi: ardent, brillant, éclatant, étincelant, lumineux, pétillant, radieux, reluisant, resplendissant, rutilant, scintillant; questa Colombe, insomma, pare legata a Lux ed al suo colore, il quale – lo si sa – è frutto di un range di Frequenze restituite dal corpo in questione. Qualcuno ha mai visto una colomba … rossa? Risposta: quel rosso non si vede, poiché pare appartenere all’Infrarosso (letto e compreso come ‘sotto-il-rosso)’!

Chissà !

Cassone 25 – Il Corbeau et le Crâne

Fulcanelli scrive: ”… Le corbeau igné, juché sur le crane qu’il becquette, figures assemblées de la mort et de la putréfaction; …”.

E Paolo: “il corvo igneo, appollaiato sul cranio che sta becchettando, figure riunite della morte e della putrefazione; …”.

[Il Mistero delle Cattedrali – 2005, p. 289]

[Disegno di J.J Champagne]

Per cominciare: l’uccello che indica Fulcanelli è quello classico dell’iconografia alchemica, il Corvo, le Corp Beau; ed è sempre legato alla morte, simboleggiante la Putrefazione della materia in opera; in qual momento? … ai lettori la risposta.

Raramente appare avvolto dalle fiamme: in questo caso si tratterebbe di un kórax, ma igneo: uno zolfo igneo, il che apparirebbe tautologico, no? Quindi rappresenta forse un corpo nero come il Corvus corax, ma portatore di un fuoco, oppure si sta parlando magari d’altro? Il che equivale ad una domanda che posi, molti anni fa, in un mio Post sulla Calcinazione Filosofica (qui): “Domanda: si sta parlando di dar fuoco al corpo, o si sta parlando d’altro?”.

Ovviamente, tocca all’alchimista fare i conti con questa enigmatica rappresentazione.

Alla evocata Putrefazione si riferisce invece il teschio, il cranio: e qui, chi ha già messo-le-mani-in-pasta, saprà certo a qual corpo ci si riferisca, e – forse – pure al luogo operativo (o saranno luoghi, al plurale?); una primissima sintesi di questa rappresentazione, dunque, potrebbe essere che un certo qual corpo, in un certo qual luogo, viene messo in contatto, in un certo modo, con un … Corp Beau, ma dalle caratteristiche ignee; questo Corp Beau, come detto sopra, che è uno zolfo (di per sé igneo) sarebbe portatore di un fuoco, che induce la morte … del cranio! Doppio Ohibò, non credete?

Sia come sia, questo Cassone dovrebbe almeno solleticare la curiosità di chi studia Alchimia; se, come pare evidente, il tema sollevato in questa curiosa scultura è la morte, sono personalmente dell’idea che chi sostenesse che Étienne Lallemant abbia in qualche modo ispirato l’accurato scalpellino nel suo Livre des Heures grazie al teschio decorato dalla scritta ‘Memanto Mori’.

… beh, io credo che la sua tesi sarebbe ben lontana dall’indicare una morte umana. La morte qui evocata è la morte alchemica, il cui risultato – lo si creda o meno – consiste nella nascita di un nuovo corpo, nel venire in Essere di un nuovo corpo, animato da quell’Esprit Universel che vivifica la Materia, ri-animandola; mediante una nuova Forma. Si tratta palesemente della nascita di nuova Vita.

Fra le cose che colpiscono chi osservasse bene la scultura, v’è questo ambiguo, se così si può dire, uccello: curioso, perché non sembra un Corvo; piuttosto, forse, un Falco (Pellegrino?) … ora, chi avesse letto o consultato – giusto per fare un esempio facile – l’Atalanta Fugiens di Michael Maier, ricorderà senza dubbio l’incisione dell’Emblema XLIII, che recita ‘Audi loquacem vulturem, qui neutiquam te decipit.’:

L’Epigramma – accostando e il ‘vultur’ e il ‘corvus’ – fornisce in bell’evidenza un suggerimento; importante quanto semplice:

Montis in excelso consistit vertice vultur

Assiduè clamans; Albus ego atque niger,

Citrinus, rubeúsque feror, nil mentior: idem est

Corvus, qui pennis absque volare solet

Nocte tenebrosâ, mediâque in luce diei,

Namque arti caput est ille vel iste tuæ.”.

Come sempre, se non lo si fosse già fatto, studiare il passo del geniale Conte Palatino compiacerà chi già opera e magari lo potrebbe indurre ad elaborare nuove ipotesi; e incuriosirà – e non poco – chi si fosse appena addentrato un po’ nel Bosco Incantato della Dama!

Dimenticavo: … avete fatto caso a quelle specie di ‘campanelle’ fissate alle zampe del Falcone scolpito sul Plafond? Nell’Arte della Falconeria, ricorda ijnuhbes, riservata ai grandi Re del passato, il suono emesso da quelle grelots mentre il rapace era in volo, aiutavano il Real Falconiere a seguirne il volo … compaiono anche, per quanto con un tratto più primitivo, nel disegno di J. Julien Champagne.

Ora, nel testo di Maier che segue l’Epigramma in questione si dice che allorché gli avvoltoi/falconi iniziano a far le uova, ‘aliquid adferunt ex Indico tractu, quod est tanquam nux, intùs habens, quod moveatur, sonúmque subinde reddat’; e quando si sono ‘adattati’ una tal ’noce’ … allora producono molti feti; ma solo uno sopravvive, che viene chiamato

IMMUSULUS

… Chapeau …

À bientôt, mes Dames et mes Sires !

“La Bugia” del Marchese Palombara … 2

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Proseguo nella Parabola del buon Marchese.

A chi non è infuso di celeste sapienza, apporterà la lettura dei libri molta occasione di considerare che i loro discorsi sono pieni di equivoci e contraddizioni, che perciò il prudente ed accorto lettore dovrà sempre tenere accesa la bugia, acciò tra le oscurità della menzogna non inciampi nella profonda fossa dell’ignoranza.”.

Insomma, un buon consiglio, tutto omeopatico, no? “Similia Similibus Curentur”, dove nei nomina si cela il discrimine tra tenebra e Lux. Facilissimo da farsi, purché si ri-conosca, si sappia ri-conoscere, Lux; come pure, ovviamente, la propria, intima, Lux, quella originale, di nascita. Curiosamente, ma è la verità, entrambe hanno la loro Massa! E questo è un altro discorso …

Il nostro si avvia così a casa, ‘carico dell’erba celeste … colta nel colle’, che da tempi immemorabili è stata e sarà incognita all’ignorante; parola sua. Vediamo: … ma dove … dove ho letto dell’erbetta e del monte? Ah, … ecco … forse forse dal Pacifico Amante della Verità? Mi domando spesso, alla mia età, quante volte sia necessario ripetere la stessa cosa, affinché – al fine – si accenda Lux nel Cuore del cercatore.

La prende, la lava, la pulisce dalle impurità ‘che aveva nella radice’ (facili da separare: ‘non sono interne, né della sua natura’), la trita in atomi minutissimi, e la pone in un ‘vaso magico’, e la tiene sul fuoco ‘lento, vaporoso, aereo, non comburente’ – tipo quello del Trevisano – per asciugarla di una ‘certa umidità che a te ti deve essere molto ben nota’, dice. E … toh! … nasce così un Corvo! … Ah, caspita, … ma deve trattarsi del ‘vas negromanticum’ di Maria, l’Ebrea sorella di Mosè … no? Dal loggione: ‘Ecco, lo dicevo io, ci vuole un Magus, un incantesimo, una conjurationem esoterica e theophrasticam!’ dice, andando a raccattare il cappello a punta e il librone dei Grandi Grimori della Suprema congrega di Shalazam

NO. Dice Maier nell’Atalanta Fugiens, parlando di Triptolemo, commentando l’Epigramma XXXV: “… illud vas, quod Maria dicit, non esse negromanticum, sed regimen ignis tui sine quo nihil efficies.”. Punto. Basta questo, sapete? Ma ritengo sia bene prendere la Bugia indicata dal Marchese, ed accenderla con destro et ratto fiammifero, scoprendo che l’ignis tui … pur essendo senza dubbio un ignis, NON è il focherello che accendiamo sotto l’œuf-à-la-coque.

Pur avendo visto il Corvo, il buon Marchese scopre ben presto di non riuscire ad ‘aprirlo’: “ … per la mia poca pratica in operare [eh, sì … se non lavori, e tanto, e sempre, ci si trova presto tra i rovi!], poiché sebbene con certezza sapevo che dentro le viscere del suddetto corvo vi stava una bianca e pura colomba che nell’occhi  portava doi perle orientali, con il collo ricinto di risplendentissimi e ricchi diamanti, con tuttociò il corvo era sì duro, tenace e bestiale che non trovavo modo da pelarlo e strapparli le penne, che sì fortemente le tenevano avviticchiata ed intrecciata la carne e la polpa. … mi si nascondeva la chiave di questo carcere tenebroso ove innocentemente era ritenuto il mio Re, … e benché sapessi che Saturno era il custode di quella, lo trovai sempre tanto ostinato che non volse mai piegarsi alle mie calde preghiere, onde dando io in quel detto che dice: ‘comburite os nostrum igne fortissimo’, presi pertanto desperato il sopra narrato corvo e lo misi in un foco violentissimo e potente in forte vaso.”.

QED, … mal gliene incolse!

Così, ritorna al colle, in cerca della grotta che aveva trovato in precedenza; ma la trova sbarrata da una porta di Metallo, con sopra incise queste parole: “Io Mercurio, figlio di Maia per ordine di Giove sono disceso in terra, ed ho chiuso l’antro dove si trovano tutte le felicità umane e ne ho riportato la chiave in cielo.”. Evidentemente rattristato, fa per tornare a casa; ma incontra un vecchio barbuto ‘alto e asciutto’ che gli dice che Giove aveva fatto sbarrare l’antro per precauzione, ma contro gli altri mortali, e non contro il Marchese: “… poiché chi una volta gustò del nettare del cielo non è mai più escluso dalla famiglia di Giove, né vi è esempio che chi una volta fu eletto al sacro magistero, sia poi stato abbandonato da quella maestà, e sappi che se l’operazione <non> fosse difficile e laboriosa l’arte al certo perderebbe il nome di arcano …”; poi: “Giove che previde il tuo errore e che sapeva che dovevi ritornare all’antro, ordinò a Mercurio che avanti di chiuderlo mi consegnasse una cestola chiusa e sigillata, e la conservassi per doverla dare a te per quando di novo venivi all’antro, quale averesti trovo all’improvviso chiuso. Onde ecco che te la consegno e torna felice e ricordati che il gran padre Ermete ci avvisa con queste parole: ‘Separabis subtile a spisso, suaviter et magno cum ingenio, etc.’.”

Così, preso ‘il canestro’, se ne torna in Laboratorio, cominciando ad “operare di novo più sanamente” e con l’aiuto ricevuto riesce finalmente ad ottenere “ciò che l’occhio sapeva desiderare, mentre tutte le gioie del Perù erano fango appresso sì degna e non compresa visione …”.

Prima di concludere questa parte illuminata ed illuminante, credo utile ricordare che il buon Marchese aveva chiesto al vecchio chi egli fosse; e lui gli rispose: “Io sono un antico ministro di Mercurio che eternamente dimora albergo di fuora alla custodia dell’antro e sono quello che ti risposi li giorni addietra alle undici interrogazioni [qui] che mi facesti …”, confessandogli che le risposte (in realtà 10) che gli aveva dato venivano suggerite direttamente da Giove, nell’alto dei cieli.

Ciò detto, lo studioso d’Alchimia non potrà non ricordare il famosissimo episodio della vecchia (assieme ai suoi moniti, pesantissimi), della ‘vergine’ sua figlia, e delle ‘vesti’, e del ‘cofanetto’, e della ‘liscivia’ [vide in Tre Trattati Tedeschi di Alchimia del XVII Secolo, pp. 90-3], meditando per bene su quanto scrive in proposito Paolo Lucarelli (alle pp. 23-5).

Hai ottenuto l’eredità che ti ha lasciato mia figlia?” – “In verità, ho trovato il cofanetto, ma non sono proprio in grado di togliere quella veste di stracci, e la liscivia che mi hai dato non riesce a scioglierlo e nemmeno a intaccarla.” – “Tu cerchi di mangiare le lumache o i granchi col guscio? Non conviene che prima li prepari e li faccia maturare il vecchissimo cuoco dei pianeti? Ti ho detto che devi purificare il cofanetto bianco con la liscivia che ti ho dato, non la veste di stracci esterna e cruda; infatti prima di tutto devi bruciarla con il fuoco dei saggi, e allora tutto andrà bene.”, (alla p. 93).

Concludo avvertendo il lettore che l’apparente o ipotetica contraddizione tra i due sogni che si potrebbe presentare alla mente di chi lavora, è solo un ostacolo razionale; velenoso, e più pesante dei moniti della vecchia centenaria. Se invece riuscisse ad aprire il Cuore, con la Bugia dal sorriso omeopatico, Lux potrebbe forse illuminar meglio il cammino. Chissà …

Lo scoglio operativo di cui si parla, è identico: ma se si prestasse miglior attenzione tanto ai termini, tanto alle Maschere indossate dai vari personaggi … beh, forse quel fiammifero cui accennavo supra potrebbe finalmente essere acceso dall’appassionato … nel corpo giusto & col modo giusto! … il resto lo farà Madre Natura!

Zì Baldone alchemico, ovvero lo Zabaglione dello Zibellino

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Primavera prepara quel che c’è da preparare ogni anno; che piova o tiri vento, scende l’Esprit che è un portento! … In quest’ottica di rilassato tempo d’attesa, leggo e rileggo quel che mi piace.

Ecco qualche scampolo, qualche spigolatura, di alcuni passaggi di pazzi-saggi che hanno ritenuto di lasciar tracce del loro riflettere e del loro maneggiar, com’è d’uopo e d‘uso in Alchimia. Ho tradotto velocemente, cercando di mantenere l’aderenza con il modo di scrivere dell’epoca, e – siccome mi paiono tutti belli ed interessanti – … mi asterrò dal commentarli, lasciando a chi vorrà leggerli l’onere e l’onore di gettare alle ortiche qualsiasi logica e razionalità; solo in absentia totale della ratio si potrà forse intravedere la luce di queste perline sfuse, gettate alla rinfusa. Quell’eventuale lucore che potrebbe apparire dopo un’intuizione da bimbi, dovrà poi essere passato all’onere della pratica, al forno.

Si tratta di un andare avanti & indietro, tra buoni libri e pratica di Laboratorio, un moto ripetuto e portato avanti ad ogni piè sospinto, con tenacia e gentilezza ed allegria: Madre Natura è sempre munifica verso che ha scelto di seguirla. Datevi il tempo per entrare nella mentalità di questi pazzi-saggi, che è enormemente lontana dalle nostre: tutto è semplice in Natura, ed ogni Cercatore – come si vedrà – deve per forza usare una sorta di auto-traduzione di ciò che ‘sente’ nel Cuore quando si contempla la bellezza inenarrabile dell’Alchimia. Ma tutti stanno parlando del medesimo ed unico modus operandi; ognuno farà il suo buon Zabaglione, e all’assaggio mostreranno spunti e punte di leggere sfumature; ma il Primum Ens dello Zabaglione è sempre e soltanto Uno. Come è Naturale che sia, no?

Ah, dimenticavo: … perché Zibellino? Risposta facile: è l’Hermine, una specie di martora (Martes Zibellina) dal pelo estremamente soffice; in Araldica l’Armellino è uno smalto simboleggiato da una curiosa puntinatura, di bianco moscata di nero. Voilà!

La Prassi (o Pratica, scegliete voi)

Prendi la Vergine alata ottimamente lavata & mondata, impregnata con il seme spirituale del primo maschio, gravida con gloria rifluente di intemerata verginità, le tinte guance emetteranno con colore purpureo: unisci quella con il secondo maschio senza sospetto d’adulterio, dal cui seme corporeo di nuovo concepirà, e partorirà infine una prole del sesso di entrambi da venerare, donde sorgerà una schiatta immortale di potentissimi Re.”

[Jean d’Espagnet – Arcanum Hermeticæ Philosophiæ Opus – Parisiis, 1623, Canone 58]

Prima Figura, Paragrafo primo, Spiegazione

Quando lo Spirito universale del mondo o della natura si è diffuso nel Fuoco centrale della la Terra e ha iniziato a lavorarvi, si trova legato ad una forma ed un aspetto umidi e liquidi mercuriali, ed espulso in avanti dall‘Archeo della terra come unaria impregnata, congelato da Saturno e, diventato in un certo qual modo il limo molto metallico che si chiama sperma dei metalli, gettato ai piedi dellartista il quale, avendolo riconosciuto come il più grande tesoro del mondo, lo porta con gioia a casa, l’introduce nella dimora di vetro, lo lega al Mercurio celeste, poi lo rinchiude. Sopra di lui spunta allora il corvo nero nella putrefazione, il quale, dopo la sua nuova nascita nel regno del Paradiso, si trasforma in Diana fissa e infine nel Figlio coronato del Sole.

[L’Enfant Hermaphrodite du Soleil et de la Lune – Mayence. 1752]

Nella sublimazione filosofica del Mercurio, ovvero prima preparazione, un Erculeo lavoro incombe su chi opera; infatti Giasone – senza Alcide – invano avrebbe tentato la spedizione Colchica;

Uno da una nota sommità mostrava la pelle dorata come Principio che tu possa prendere;

L’altro quanto fardello subisca.[1]

La soglia infatti viene custodita da bestie cornute, che respingono chi si avvicina avventatamente non senza danno; soltanto le armi di Diana & le colombe di Venere ammansiscono la loro ferocia, se il fato ti chiama.

[Jean d’Espagnet – Arcanum Hermeticæ Philosphiæ Opus – Parisiis, 1623, Canone 42]

Tuttavia fratello mio non devi pensare, né cadere nel sospetto, come hanno insegnato quei furfanti bugiardi, che il Mercurio e lo Zolfo siano la prima materia dei metalli: infatti nelle vene della terra, dove i metalli crescono, non si trovano né il Mercurio né lo Zolfo, perché li hanno semplicemente plasmati per [trarre in] inganno, come pure il fuoco elementare, detto Zolfo, e il liquore Mercurio. Allo stesso modo, hanno chiamato il fuoco elementare il nostro Sole e il liquore la nostra Luna, al solo scopo di ingannare la gente. E li hanno chiamati anche spirito e anima: difatti il fuoco elementare l’hanno chiamato anima, e il liquore elementare spirito, perché le cose elementari sono invisibili. Così tra lo spirito e l’anima non c’è differenza; infatti l’anima è fuoco invisibile e lo spirito umidità invisibile.

… tutte le cose sono state distribuite in tre nature; e sebbene queste tre nature dal punto di vista corporeo siano distinte in vegetale, animale e minerale, esse, pur sempre elementari, quindi occultamente, hanno avuto origine da una sola sostanza.

Tutte hanno una sola ed unica radice, dalla quale verdeggiano e crescono, che gli Antichi, per inganno, hanno chiamato prima materia o Hylé. Mentre non è altro che un fuoco elementare occulto, col proprio Liquore, che gli Antichi chiamarono umido radicale e non hanno parlato da inesperti: il Liquore infatti è la radice di ogni creatura.

[Via Veritatis Unicæ, in Musæum Hermeticum – Francofurti, 1671]

Quindi, quando le tue materie sono unite, che sono il nostro e il nostro , non pensare come molti Alchimisti vanamente immaginano, che il morire del sole seguirà immediatamente, certamente no, noi abbiamo aspettato per un lungo e noioso periodo, prima che fosse fatta la riconciliazione tra l’acqua e il fuoco; e questo gli invidiosi hanno misticamente compreso in un breve discorso, quando al primo inizio del loro lavoro hanno chiamato la loro Materia Rebis, ossia fatta di due sostanze, secondo il Poeta,

Rebis sono due cose unite, eppure è una sola,

Dissolta, affinché Sole o Luna siano soltanto Sperma.

Sappi dunque una indubbia verità, che sebbene il nostro divori il Sole , non lo fa come i Chimici Fantastici sognano, perché anche se il si unisce col nostro , dopo un anno li separerai l’uno dall’altro nella loro propria natura a meno che tu li cuocia insieme in un conveniente grado di fuoco, altrimenti non saranno alterati; chi affermerà il contrario non è un Filosofo.

[Philalethe – Secrets Reveal’d – London, 1669, Chap. 24]

“ ‘Ti ho detto di purificare con somma cura questo canestro bianco con la lisciva donata, che è estratta da essa e non questo straccio che va asportato e che è crudo, ma prima è necessario che tu lo bruci con il fuoco dei sapienti, & allora la cosa riuscirà felicemente’: a tal fine, mi diede delle braci coperte di seta bianca, con ulteriore spiegazione, cosicché da queste braci dovevo eccitare il fuoco Filosofico, interamente artificioso, & bruciare lo straccio da asportare; e allora subito il canestro bianco che dovevo trovare mi sarebbe [apparso].

[Adrian von Mynsicht (alias Madathanus) – Aureum Seculum Redivivum – Francofurti, 1677]

Abbiamo detto, e lo ripetiamo, che l’oggetto della dissoluzione filosofica è l’ottenimento dello zolfo che, nel Magistero, gioca il ruolo di formatore coagulando il mercurio chi gli è aggiunto, proprietà che trae dalla sua natura ardente, ignea e disseccante. «Ogni cosa secca beve avidamente il suo umido», dice un vecchio assioma alchemico. Ma questo zolfo, al momento della sua prima estrazione, non è mai spoglio del mercurio metallico col quale costituisce il nucleo centrale del metallo, chiamato essenza o seme. Da qui risulta che lo zolfo, conservando le qualità specifiche del corpo dissolto, non è in realtà che soltanto la parte più pura e più sottile di questo corpo stesso. Di conseguenza, abbiamo il diritto di considerare, con la pluralità dei maestri, che la dissoluzione filosofica realizza la purificazione assoluta dei metalli imperfetti. Ora, non vi è esempio, spagirico o chimico, di un’operazione suscettibile di dare un tale risultato. Tutte le purificazioni di metalli trattati con metodi moderni non servono che a sbarazzarli delle impurità superficiali meno tenaci. E queste, portate della miniera o conseguenti alla riduzione del minerale, sono generalmente poco importanti. Al contrario, il procedimento alchemico, dissociando e distruggendo la massa di materie eterogenee fissate sul nucleo, costituito da zolfo e di mercurio molto puri, rovina la maggior parte del corpo e la rende refrattaria a ogni riduzione ulteriore.

Ma ciò che distingue la soluzione filosofica da tutte le altre, e le assicura perlomeno una reale originalità, è che il dissolvente non si assimila al metallo basico che gli è offerto; ne allontana soltanto le molecole, per rottura di coesione, s’impadronisce delle parcelle di zolfo puro che possono trattenere e lasciano il residuo, formato dalla maggior parte del corpo, inerte, disgregato, sterile e completamente irriducibile. Non si saprebbe dunque ottenere con esso un sale metallico, come si fa per mezzo degli acidi chimici. Del resto, conosciuto dall’antichità, il dissolvente filosofico non è stato mai utilizzato che in alchimia, da manipolatori esperti nella pratica del giro di mano speciale che esige il suo uso. è lui che i saggi hanno in vista quando dicono che l’Opera si fa con una cosa unica. Contrariamente ai chimici e spagiristi, i quali dispongono di una raccolta di acidi diversi, gli alchimisti non possiedono che un solo agente, che ha ricevuto quantità di nomi diversi, di cui ultimo in data è quello di Alkaest.

[Fulcanelli, Les Demeures Philosophales – Paris, 1964, Tome II]


[1] Si tratta di una citazione dalla Chrisopœia di Augurellus, al Libro II: “Alter in auratam nota de vertice pellem / Principium velut ostendit, quod sumere possis; / Alter onus quantum subeas.