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Bourges – Hôtel Lallemant, Caissons – Serie IX

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Ritorniamo ad esaminare  i Caissons dell’Hôtel Lallemant:

Questo terzetto, il penultimo, ci offre tre rappresentazioni tipiche d’Alchimia.

Cassone 23 – Il Livre Ouvert.

Fulcanelli accenna solo descrittivamente a questo Caisson:

Nous remarquons aussi le livre ouvert dévoré par le feu; …”.

[Le Mystère des Cathédrales – 1926, p. 134]

A proposito del libro – come indicato anche dall’amico ‘ijnuhbes’ – Fulcanelli scriverà in seguito:

Nous avons eu, à maintes fois déjà, l’occasion d’expliquer le sens du livre ouvert, caractérisé par la solution radicale du corps métallique, lequel, ayant abandonné ses impuretés et cédé son soufre, est alors dit ouvert. Mais ici une remarque s’impose. Sous le nom de liber et sous l’image du livre, adoptés pour qualifier la matière détentrice du dissolvant, les sages ont entendu désigner le livre fermé, symbole général de tous les corps bruts, minéraux ou métaux, tels que la nature nous les fournit ou que l’industrie humaine les livre au commerce. Ainsi, les minerais extraits du gîte, les métaux sortis de la fonte, sont exprimés hermétiquement par un livre fermé ou scellé. De même, ces corps, soumis au travail alchimique, modifiés par application de procédés occultes, se traduisent en iconographie à l’aide du livre ouvert. Il est donc nécessaire, dans la pratique, d’extraire le mercure du livre fermé qu’est notre primitif sujet, afin de l’obtenir vivant et ouvert, si nous voulons qu’il puisse à son tour ouvrir le métal et rendre vif le soufre inerte qu’il renferme. L’ouverture du premier livre prépare celle du second. Car il y a, cachés sous le même emblème, deux livres fermés (le sujet brut et le métal) et deux livres ouverts (le mercure et le soufre), bien que ces livres hiéroglyphiques n’en fassent réellement qu’un seul, puisque le métal provient de la matière initiale et que le soufre prend son origine du mercure.”.

[Les Demeures Philosophales – 1939, p. 304]

Ed ecco la mia personale traduzione:

“Abbiamo avuto, già più volte, l’occasione di spiegare il senso del libro aperto, caratterizzato per mezzo della soluzione radicale del corpo metallico, il quale, avendo abbandonato le proprie impurità e ceduto il suo zolfo, vien allora detto aperto. Ma qui si impone una precisazione. Sotto il nome di liber e sotto l’immagine del libro, adottati per qualificare la materia detentrice del dissolvente, i saggi hanno inteso designare il libro chiuso, simbolo generale di tutti i corpi grezzi, minerali o metalli, così come ce li fornisce la natura o come l’industria umana li consegna al commercio. Così, i minerali grezzi estratti dal giacimento, i metalli ottenuti dalla fusione, sono espressi ermeticamente per mezzo di un libro chiuso o sigillato. Allo stesso modo, questi corpi, sottoposti alla lavorazione alchemica, modificati per mezzo dell’applicazione dei processi celati, si traducono nell’iconografia grazie all’aiuto del libro aperto. È dunque necessario, nella pratica, estrarre il mercurio dal libro chiuso che è il nostro soggetto primitivo, al fine di ottenerlo vivente ed aperto, se vogliamo che possa a sua volta aprire il metallo e rendere vivo lo zolfo inerte che racchiude. L’apertura del primo libro prepara quello del secondo. Perché ci sono, nascosti sotto il medesimo emblema, due libri chiusi (il soggetto grezzo ed il metallo) e due libri aperti (il mercurio e lo zolfo), benché questi libri geroglifici non ne facciano realmente che uno solo, dato che il metallo proviene dalla materia iniziale e che lo zolfo trae la sua origine dal mercurio.”.

Il brano qui proposto proviene da uno dei Capitoli che amo di più, e che sono tra i più indicativi per la pratica Filosofale prima, e di Laboratorio poi: Les Gardes du Corps de François II, nella sezione dedicata allo studio della statua della Justice.

Lo studioso/studente potrà riflettere al meglio sulle chiare e preziose indicazioni di Fulcanelli, avvertendo che – more solito – le sue parole vanno ben comprese: per quanto veritiere e concise, Fulcanelli non scrive mai in modo banale.

Ma, tanto per sottolineare la ‘facienda’ – vale a dire ‘il da farsi’ – dei ‘processi celati’ cui accenna Fulcanelli, ecco un altro passo (ma ve ne sono ovviamente altri) che pare riferirsi sempre al doppio libro (che sono in realtà quattro ‘cose’; sebbene una certa cautela sia d’uopo quando si volesse tentare l’esatta comprensione di ciò che ha voluto comunicare), che riporto tal quale, la cui traduzione è molto semplice:

Ce livre fermé, symbole parlant du sujet dont se servent les alchimistes et qu’ils emportent au départ, est celui qui tient avec tant de ferveur le second personnage de l’Homme des Bois; le livre signé de figures permettant de le reconnaître, d’en apprécier la vertu et l’objet. Le fameux manuscrit d’Abraham le Juif, dont Flamel prend avec lui une copie des images, est un ouvrage du même ordre et de semblable qualité. Ainsi la fiction, substituée à la réalité, prend corps et s’affirme dans la randonnée vers Compostelle. On sait combien l’Adepte se montre avare de renseignements au sujet de son voyage, qu’il effectue d’une seule traite. « Donc en ceste mesme façon, se borne-t-il à écrire, je me mis en chemin et tant fis que j’arrivais à Montjoie et puis à Saint-Jacques, où, avec une grande dévotion, j’accomplis mon vœu. » Voilà, certes, une description réduite à sa plus simple expression. Nul itinéraire, aucun incident, pas la moindre indication sur la durée du trajet. Les Anglais occupaient alors tout le territoire : Flamel n’en dit mot. Un seul terme cabalistique, celui de Mont-joie, que l’Adepte, évidemment, emploie à dessein. C’est l’indice de l’étape bénie, longtemps attendue, longtemps espérée, où le livre est enfin ouvert, le mont joyeux à la cime duquel brille l’astre hermétique2. La matière a subi une première préparation, le vulgaire vif-argent s’est mué en hydrargyre philosophique, mais nous n’apprenons rien de plus. La route suivie est sciemment tenue secrète.”.

[Les Demeures Philosophales – 1939, pp. 172-3]

A titolo di commento, val la pena di dire, credo, che Fulcanelli indica con chiarezza che il famoso ‘Viaggio a Compostella’ è una metafora; nulla di più. E che il termine Mont Joie indica un Cairn, che in Inglese è un monticello di rocce/pietre, usato sia come marker di un percorso (montano, per esempio), sia come luogo di raduno dei soldati sul campo di battaglia: forse da questo è diventato celeberrimo il grido Mont Joie – Saint Denis, urlato orgogliosamente dai cavalieri di Carlo Magno, radunati attorno ad un altro marker, reso celebre da La Chanson de Roland: l’Oriflamma; quest’ultimo, oltre ad essere una lunga banderuola rosso scarlatto appiccata sulla cime di una lancia, può far sorridere l’alchimista accuorto: il termine suona un po’ come … l’origine della fiamma (si dice che Carlo Magno stesso lo portasse con la lancia in Terra Santa come arma per sterminare i Saraceni!; … o tempora, o mores!); così, in allegria, si chiude il mio personale esame del libro, aperto, tra le fiamme: la lancia di Carlo Magno, il Mont-Joie, ci conduce dritti dritti a Lancilotto – studiate, please, il magnifico Lo Chevalier de la Charette di Paolo Lucarelli – , che è Lancelot, l’Angioletto! … ohibò, sarà forse per questo che il Plafond dell’Oratoire (!) è zeppo di Angioletti e di tre Livres ouverts ????

3 ??? … Oh, my God!

Cassone 24 – La Colombe.

Fulcanelli: “… la colombe auréolée, radiante et flamboyante, emblème de l’Esprit; …”.

[Le Mystère des Cathédrales – 1926, p. 134]

Anche in questo caso, a mio parere, questo Caisson centrale rappresenta il risultato di ciò che è causato dalle azioni/operazioni legate ai due Caissons laterali; si tratta, in tutta evidenza, della Colomba rappresentante l’Esprit, più esplicitamente le Saint Esprit, più alchemicamente ed operativamente, l’Esprit Universel.

[Disegno di J.J Champagne]

Questo topos alchemico è così tipico, così ‘parlante’, così famoso, che non credo necessiti di commenti in questo piccolo studio: si sta parlando della discesa (meglio: dell’attrazione) dell’Esprit Universel NELLA Materia. Fulcanelli, laconicamente, indica soltanto che essa Colombe è sia Aureolata che Radiante che Scintillante/Fiammeggiante! … e questa precisione dei tre-aggettivi-tre mi pare derivare da una sua cultura più legata ad una Fisica (à la Louis de Broglie, per esempio) che soltanto squisitamente ermetica; beninteso, per non turbare troppo gli animi, è solo una mia opinione, eh?

En passant, oltre che segnalare che il Flamboyant è anche una bellissima arborescenza di color rosso caldo, il termine ha anche questi sinonimi: ardent, brillant, éclatant, étincelant, lumineux, pétillant, radieux, reluisant, resplendissant, rutilant, scintillant; questa Colombe, insomma, pare legata a Lux ed al suo colore, il quale – lo si sa – è frutto di un range di Frequenze restituite dal corpo in questione. Qualcuno ha mai visto una colomba … rossa? Risposta: quel rosso non si vede, poiché pare appartenere all’Infrarosso (letto e compreso come ‘sotto-il-rosso)’!

Chissà !

Cassone 25 – Il Corbeau et le Crâne

Fulcanelli scrive: ”… Le corbeau igné, juché sur le crane qu’il becquette, figures assemblées de la mort et de la putréfaction; …”.

E Paolo: “il corvo igneo, appollaiato sul cranio che sta becchettando, figure riunite della morte e della putrefazione; …”.

[Il Mistero delle Cattedrali – 2005, p. 289]

[Disegno di J.J Champagne]

Per cominciare: l’uccello che indica Fulcanelli è quello classico dell’iconografia alchemica, il Corvo, le Corp Beau; ed è sempre legato alla morte, simboleggiante la Putrefazione della materia in opera; in qual momento? … ai lettori la risposta.

Raramente appare avvolto dalle fiamme: in questo caso si tratterebbe di un kórax, ma igneo: uno zolfo igneo, il che apparirebbe tautologico, no? Quindi rappresenta forse un corpo nero come il Corvus corax, ma portatore di un fuoco, oppure si sta parlando magari d’altro? Il che equivale ad una domanda che posi, molti anni fa, in un mio Post sulla Calcinazione Filosofica (qui): “Domanda: si sta parlando di dar fuoco al corpo, o si sta parlando d’altro?”.

Ovviamente, tocca all’alchimista fare i conti con questa enigmatica rappresentazione.

Alla evocata Putrefazione si riferisce invece il teschio, il cranio: e qui, chi ha già messo-le-mani-in-pasta, saprà certo a qual corpo ci si riferisca, e – forse – pure al luogo operativo (o saranno luoghi, al plurale?); una primissima sintesi di questa rappresentazione, dunque, potrebbe essere che un certo qual corpo, in un certo qual luogo, viene messo in contatto, in un certo modo, con un … Corp Beau, ma dalle caratteristiche ignee; questo Corp Beau, come detto sopra, che è uno zolfo (di per sé igneo) sarebbe portatore di un fuoco, che induce la morte … del cranio! Doppio Ohibò, non credete?

Sia come sia, questo Cassone dovrebbe almeno solleticare la curiosità di chi studia Alchimia; se, come pare evidente, il tema sollevato in questa curiosa scultura è la morte, sono personalmente dell’idea che chi sostenesse che Étienne Lallemant abbia in qualche modo ispirato l’accurato scalpellino nel suo Livre des Heures grazie al teschio decorato dalla scritta ‘Memanto Mori’.

… beh, io credo che la sua tesi sarebbe ben lontana dall’indicare una morte umana. La morte qui evocata è la morte alchemica, il cui risultato – lo si creda o meno – consiste nella nascita di un nuovo corpo, nel venire in Essere di un nuovo corpo, animato da quell’Esprit Universel che vivifica la Materia, ri-animandola; mediante una nuova Forma. Si tratta palesemente della nascita di nuova Vita.

Fra le cose che colpiscono chi osservasse bene la scultura, v’è questo ambiguo, se così si può dire, uccello: curioso, perché non sembra un Corvo; piuttosto, forse, un Falco (Pellegrino?) … ora, chi avesse letto o consultato – giusto per fare un esempio facile – l’Atalanta Fugiens di Michael Maier, ricorderà senza dubbio l’incisione dell’Emblema XLIII, che recita ‘Audi loquacem vulturem, qui neutiquam te decipit.’:

L’Epigramma – accostando e il ‘vultur’ e il ‘corvus’ – fornisce in bell’evidenza un suggerimento; importante quanto semplice:

Montis in excelso consistit vertice vultur

Assiduè clamans; Albus ego atque niger,

Citrinus, rubeúsque feror, nil mentior: idem est

Corvus, qui pennis absque volare solet

Nocte tenebrosâ, mediâque in luce diei,

Namque arti caput est ille vel iste tuæ.”.

Come sempre, se non lo si fosse già fatto, studiare il passo del geniale Conte Palatino compiacerà chi già opera e magari lo potrebbe indurre ad elaborare nuove ipotesi; e incuriosirà – e non poco – chi si fosse appena addentrato un po’ nel Bosco Incantato della Dama!

Dimenticavo: … avete fatto caso a quelle specie di ‘campanelle’ fissate alle zampe del Falcone scolpito sul Plafond? Nell’Arte della Falconeria, ricorda ijnuhbes, riservata ai grandi Re del passato, il suono emesso da quelle grelots mentre il rapace era in volo, aiutavano il Real Falconiere a seguirne il volo … compaiono anche, per quanto con un tratto più primitivo, nel disegno di J. Julien Champagne.

Ora, nel testo di Maier che segue l’Epigramma in questione si dice che allorché gli avvoltoi/falconi iniziano a far le uova, ‘aliquid adferunt ex Indico tractu, quod est tanquam nux, intùs habens, quod moveatur, sonúmque subinde reddat’; e quando si sono ‘adattati’ una tal ’noce’ … allora producono molti feti; ma solo uno sopravvive, che viene chiamato

IMMUSULUS

… Chapeau …

À bientôt, mes Dames et mes Sires !

Bourges – Hôtel Lallemant, Caissons – Serie VIII

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Rientriamo nella Chapelle, che sembra un tempo aver avuto un ruolo in qualche modo anche liturgico, come vediamo da questa immagine d’epoca:

Se la presenza di un Altare e di una sorta di incavo laterale decorato (la famosissima Crédence) ci parlano di un uso religioso, difficile è riconoscerlo come tale quando esaminiamo alcuni Caissons, decisamente un po’ troppo espliciti nelle loro rappresentazioni scultoree; su questo curioso soffitto, oltre a quelli che abbiamo già esaminato sin qui, il terzetto di cui ci occuperemo oggi è decisamente ludico:

Il percorso che si dipana lungo questa sorta di scacchiera vede qui altri due Angelots, giocanti e giocosi, che evidentemente alludono al Cassone nel loro mezzo.

Cassone 20 – Lo Cheval de Bois.

Fulcanelli scrive: “Enfin, l’image suivante représente le ludus puerorum commenté dans la Toison d’or de Trismosin et figuré d’une manière identique: un enfant fait caracoler son cheval de bois, le fouet haut et la mine réjouie.”.

La traduzione di Paolo è, more solito, perfetta. “Infine, l’Immagine seguente rappresenta il ludus puerorum commentato nel Toson d’Oro di Trismosin e raffigurato in modo identico: un bambino fa caracollare il suo cavallo di legno, la frusta alta e l’espressione gioiosa.”.

[Fulcanelli, Il Mistero delle Cattedrali – 2005, p. 290]

L’Angioletto è un maschietto, nudo ma coiffé, ed impugna la sua frusta mentre cavalca il suo amato cavalluccio. Si tratta evidentemente di un bel gioco, no? Eppure, se vogliamo parlare d’Alchimia, v’è dell’altro.

Per prima cosa leggiamo il ‘commento’ di Salomon Trismosin, come indicato da Fulcanelli, nell’Edizione del 1612, all’articolo terzo:

Il terzo grado dei Naturalisti è la Sublimazione, mediante la quale la terra massiva& grossolana si converte nel suo contrario umido, & si può agevolmente distillare dopo che essa si sia mutata in questa umidità: perché non appena l’acqua si è ridotta & organizzata come mescolanza per influssione nella sua propria terra, essa non trattiene più in alcun modo la qualità dell’aria, elevandosi poco a poco & gonfia la terra trattenuta sino ad allora in fondo a causa della sua siccità beata & smisurata, come un corpo compatto & ben pressato; la quale nondimeno vi riprende i propri spiriti & si estende più in largo a causa dell’influenza di questo umore che si assorbe all’interno, & si mantiene mediante la sua infusione all’interno del corpo solido sotto forma di una nube porosa & simile a quest’acqua che galleggia nell’uovo, vale a dire l’anima della quinta sostanza che noi chiamiamo a buon merito, tinctus, fermentum, anima, oleum, per essere la materia più necessaria & la più vicina alla Pietra dei Saggi; tanto più che da questa sublimazione provengono delle ceneri, le quali propriamente (ma soprattutto per mezzo dell’assistenza di Dio, senza la cui bontà nulla riuscirà) si attribuiscono dei limiti & misure di fuoco, il quale è chiuso & racchiuso come da bastioni naturali. Ripley ne parla così & nello stesso nostro senso: fa, dice, un fuoco nel tuo vetro, vale a dire nella terra che lo tiene racchiuso. Questo breve metodo sul quale ti abbiamo liberamente istruito, mi sembra la via più corta & la vera Sublimazione Filosofica, per arrivare alla perfezione di questo pesante lavoro, giustamente paragonato per la sua purezza & candore ammirevole, al mestiere ordinario delle donne, vale a dire al lavatoio, che ha questa proprietà di rendere infinitamente bianco ciò che in effetti in precedenza appariva sporco & pieno di lordure, come la seguente figura ti farà conoscere perfettamente. Ma ancora prima io voglio mostrare che non sono il solo che offre i medesimi aspetti alla nostra Opera che il mestiere delle donne, non essendoci nulla di così comune nei migliori Autori che questa giusta similitudine. Il Ludus Puerorum lo chiama ‘fatto di femmine & gioco di bambini’, dato che i bimbi si sporcano & si rotolano nella lordura dei propri escrementi, rappresentando questa nerezza tratta dalle proprie mistioni naturali del nostro corpo minerale, senza altra operazione d’artificio che il suo fuoco caldo & umido, digerente & vaporoso; la qual nerezza & putrefazione viene pulita mediante la bianchezza che in seguito prenderà il suo posto facendosi una casa pulita & purgando di ogni lordura questa prima cuccia imperfetta. Così come la donna si serve di una liscivia & di un’acqua chiara per dare al suo bimbo la pulizia richiesta alla sua intera conservazione.

[mia personale e rapidissima traduzione]

Ohibò! … alla faccia della ‘brevità’! … Sia come sia la faccenda ludica viene qui descritta con un interessante dettaglio, credo. L’immagine che precede questo commento è questa:

… e quella a cui Trismosin si riferisce è ben più famosa:

Prima di continuare però, a costo di annoiare, credo utile riportare il monito del Ludus Puerorum, cioè il trattatello scritto nel Latino del 1523, facile e istruttivo:

Debet autem triplex ludus puerorum præcedere opus mulierum. Pueri enim ludunt in tribus rebus. Primo cum muris frequenter vetustissimis. Secundo cum urina. Tertio cum carbonibus. Primus ludus materiam lapidis ministrat. Secundus ludus animam augmentat, Tertius ludus corpus ad vitam præparat. Ex flore sanguinis fit Sal petra, cum primo ludo puerorum. Quo facto restat ipsum animare, & frequenter cum suo compari in aquam solvere, cum duobus alijs puerorum ludis, qui necessarij sunt, usque ad tertium calorem nostri Elixiris in opere mulierum, quod opus earum est coquere; qui ergo potest capere capiat.

[Vide l’Incipit faustè, dal Tractatus Opus Mulierum, et Ludus Puerorum dictus]

Cassone 21 – La Grenade Ignée.

Fulcanelli commenta questo Cassone così: “… la calcination philosophique, symbolisée par une grenade soumise à l’action du feu dans un vase d’orfèvrerie; au-dessus du corps calciné, on distingue le chiffre 3 suivi de la lettre R, qui indiquent à l’artiste la nécessité des trois réitérations du même procédé, sur laquelle nous avons déjà plusieurs fois insisté.”.

E Paolo: “… la calcinazione filosofica, simboleggiata da una melagrana sottoposta all’azione del fuoco in un vaso d’oreficeria; sopra al corpo calcinato si distingue la cifra 3 seguita dalla lettera R, che indica all’artista la necessità di tre reiterazioni dello stesso procedimento su cui abbiamo già insistito parecchie volte.”.

[ibidem]

Tutti sanno che la tradizione ermetica affida alla bellissima Melagrana il simbolo della fertilità; non mi dilungherò su questo, ma vi riporto il Mito arcaico ma terribile ad essa legato, raccontato da Alfredo Cattabiani:

… la Madre degli dèi, detta Cibele o Agdistis e descritta come un androgino, fu evirata per ordine della corte olimpica con uno stratagemma. C’era una sorgente alla quale soleva dissetarsi. Dioniso, che aveva il compito di separare la virilità da lei, ne tramutò l’acqua in vino. Agdistis-Cibele bevve l’insolita bevanda cadendo in un sonno invincibile; e il dio che stava in agguato, legò con una fune il suo membro maschile ad un albero.

Quando l’androgino si fu destato dall’ebrezza, balzò in piedi con uno slancio poderoso che permise alla fune di evirarlo mentre un fiotto di sangue inondava la terra: sangue magicamente fecondo se dal terreno sorse un melograno con un frutto. Il quale attirò un giorno l’attenzione della figlia di Sangarios, dio fluviale: Nana, dal nome identico a quello babilonese della Grande Dea microasiatica. La fanciulla colse il frutto appoggiandolo al grembo: ma la melagrana sparì magicamente, fecondando l’ignara principessa. Dal miracoloso concepimento nacque Attis di cui Agdistis-Cibele si innamorò perdutamente non abbandonandolo nemmeno per un attimo; e quando il figlio divino, divenuto un giovanetto, fu sul punto di sposarsi e di abbandonarla, lo fece impazzire spingendolo ad evirarsi il giorno stesso delle nozze. Attis morì dissanguato, e dal sangue sparso fiorirono viole mammole.”.

L’androgino primordiale Agdistis, in un altro mito, sarebbe nato dal seme di Zeus sparso su Terra in seguito ad un focoso accoppiamento con Cibele (sempre lei, si belle); il seme divino piovve dal cielo e cadde su una roccia, per cui Agdistis è ‘figlia/o della roccia’. Si noti che Cibele è sia madre (femmina) che figlio/a (androgino).

[Cattabiani, Calendario, Rusconi – 1988, p. 160]

Cassone 22 – L’Angelot avec le tourniquet

Fulcanelli scrive: ”L’ange «qui fait tourner le monde» à la façon d’une toupie, sujet repris et développé dans un petit livre intitulé: Typus Mundi, œuvre de quelques Pères Jésuites; …”.

E Paolo: “l’angelo che «fa girare il mondo» come una trottola, soggetto ripreso e sviluppato da un piccolo libro intitolato Typus Mundi, opera di alcuni Padri Gesuiti.”.

[ibidem]

L’angioletto stavolta è vestito: sarà forse un’angioletta? … chissà! Comunque, il ginocchio poggiato a terra, sta preparandosi al suo Jouet, molto popolare a quel tempo: il tourniquet è una sorta di toupie, una trottola, ma primitiva; dopo aver svuotato la noce centrale, ed aver leggermente separato i due gusci, ha fissato la sua cordicella ad uno dei vertici di una barretta nascosta all’interno, perpendicolare all’impugnatura; poi, avvolge la cordicella, e – lanciato un sassolino in una casella di una griglia disegnata per terra (una sorta di Luna, o Stella, il nostro vecchio e amato gioco da bimbi) – salta nella casella con una gamba sola e mentre compie il salto tira velocemente, e con forza, la cordicella, facendo girare la croce di legno solidale con l’asse della sua toupie. Il punto è che la toupie non deve mai fermarsi; per cui, una volta che la cordicella è stata srotolata, la forza applicata al primo tiro fa girare la toupie in senso contrario, riavvolgendo la cordicella (en avant & en arriéré); ma prima che la croce smetta di girare, l’Angioletto deve riprendere il sassolino, gettarlo in un’altra casella più avanti (verso la Casa della Luna), saltare – sempre con una gamba sola – nella nuova casella e ripetere l’operazione. Se la croce si ferma, ha perso, ed è costretto a tornare alla casella-base da cui è partito … e rifare il tutto! Ma, naturalmente, tocca adesso ad un altro compagno di giochi …

Questo trittico sembra dunque centrato sul ‘gioco da bambini’, il cui centro è qui rappresentato da questa grenade ignée, fissata da quel 3R; la raffigurazione di questa grenade si osserva anche all’esterno dell’Hôtel Lallemant: all’angolo della Corte Superiore, l’ultima finestra in alto della Tourelle mostra … 3 grenades, di cui le due laterali in fiamme, e quella centrale – posta su un supporto à torchon – la rivela, come una massa vera e propria.

Allora, si potrebbe pensare che questa grenade non sia soltanto una bella decorazione: … ma piuttosto il risultato di quell’operazione presentata dall’enigmatico Caisson 21 (qui), dove avevamo incontrato quella sorta di ‘E’ curiosamente adagiata in orizzontale tra le fiamme. Quindi, se uno si rileggesse, con tutta calma e serenità, l’altrettanto curioso Incipit del Ludus Puerorum … forse quel ‘3’ indica non soltanto – ma giustamente! – le trois réitérations du même procédé, … ma anche una ‘Eallo specchio, che appare invertita. Ho scritto ‘si potrebbe pensare’, e la mia è soltanto una proposta di riflessione (toh!). In accordo con i migliori autori, dirò che il procedimento semplice ed unico, è sempre il medesimo, nella cui reiterazione l’Artista deve però essere consapevole che la Materia nel crogiolo, nel suo intimo, … muta, pur essendo la stessa. Per dirla tutta, se l’operazione avrà successo, si disporrà della melagrana, che come abbiamo letto con Cattabiani, è il frutto dell’albero che spunta (preferisco ‘sorge’) dalla terra fecondata, da cui nascerà il bellissimo Attis … non fatevi ingannare, però; il Sal Petra di cui parla il Ludus Puerorum, non è il comune salnitro, bensì … proprio il Sale Pietra, o Sale della Pietra stessa. Senza sale, lo sappiamo tutti, … come potremmo mai ‘salare‘? … o si dice ‘salire’? Mah … non sarà la stessa cosa?

À bientôt, mes Dames et mes Sires !

Bourges – Hôtel Lallemant, Caissons – Serie VII

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Ritorniamo a studiare il curioso soffitto della stanza che stiamo esaminando; la stanza viene chiamata generalmente ‘Chapelle’, anche se – strictu sensu – non sembra tale; ma – lato sensu – … lo è: il termine ‘cappella’ viene – pare – proprio dal Francese ‘chape’, che è la nostra ‘cappa’; si tratta del mantello, la cui epitome in terra di Francia è quella legata a San Martino, di Tours: prima di convertirsi al Cristianesimo, Martinus – un Germanico, nato in Pannonia – faceva parte di un’Ala degli Equites catafractarii Ambianenses, la cavalleria pesante generalmente dedicata alla protezione dell’Imperatore. Forse per questo – e per celebrarne le doti di Charitas – viene raffigurato (in una scultura che sovrasta il cancello d’entrata del castello di Höchst) vestito di elmo e corazza mentre taglia in due il proprio mantello (la ‘chape’) per donarlo ad un pover’uomo (il quale è, in questa raffigurazione, pure zoppo…):

Così nacque la venerazione da parte dei Re di Francia per la ‘chape’: si dice che la parte rimasta sulle spalle del buon Martinus venne conservata con ogni possibile onore e riverenza dai Re dei Franchi Merovingi, nell’Abbazia di Marmoutier a Tours, e veniva persino indossata in battaglia dal Re; da allora divenne una delle reliquie più preziose di Francia, quando Carlomagno la affidò ai monaci di Saint Denis. Il religioso che portava la ‘cappa Sancti Martini’ fuori dal reliquiario veniva chiamato ‘capellanum’, per cui tutti i sacerdoti al servizio degli eserciti vennero chiamati ‘cappellani’. Da qui, con le solite approssimazioni linguistiche, il luogo dove il ‘chapelain’ custodiva la ‘chape’ divenne … la ‘chapelle’, che poi indicò sempre un locus appartato di una chiesa e di particolare importanza nella liturgia, dove in genere veniva conservato qualcosa di prezioso.

Il famoso proverbio ‘Per un punto Martin perse la Cappa’, invece, sembra non aver nulla a che fare con San Martino, bensì con un abate del XVI secolo, il quale volendo abbellire la propria Abbazia, affidò ad un artigiano la realizzazione di un cartello di benvenuto che accogliesse i pellegrini: ”Porta patens esto. Nulli claudatur honesto.”; ma il pover’uomo sbagliò la posizione del ‘punto’, per cui la scritta diventò “Porta patens esto nulli. Claudatur honesto.”. Oltre l’imbarazzo inevitabile per lo sbaglio e il non aver controllato, la cosa arrivò fino al Pontefice, così che Martinus perse pure la ‘cappa’, … ma quella di Abate!

Ciò detto, torniamo ai Caissons, in questa settima serie.

Cassone 19 – Una Mérelle con lo scarabeo-scorpione.

Fulcanelli in proposito scrive: “… une large coquille, notre mérelle, montre une masse fixée sur elle et ligaturée au moyen de phylactères spiralés. Le fond du caisson qui porte cette image répète quinze fois le symbole graphique permettant l’identification exacte du contenu de la coquille”.

La traduzione di Paolo è, more solito, perfetta. “… una larga conchiglia, la nostra capasanta, mostra una massa fissata su di lei e legata da filatteri a spirale. Il fondo del cassettone che porta quest’immagine ripete quindici volte il simbolo grafico che permette l’esatta identificazione del contenuto della conchiglia.”.

[Fulcanelli, Il Mistero delle Cattedrali – 2005, p. 289]

C’è chi sostiene che non si tratti di una conchiglia, ma a me pare evidente che si tratti proprio della ‘capasanta’ … o ‘santa capa’ che dir si voglia. Ma la cerniera della valva pare leggermente rotta, in alto, come per mostrarne il contenuto, normalmente nascosto da due valve quando la mérelle è chiusa; voglio dire che sembra che l’immagine rappresenti qualcosa che in condizioni normali non si vede. La ‘massa’ è fissata da un unico filatterio in realtà, a formare una sorta di ‘otto’: potrebbe rappresentare – come sostiene il mio amico injubes – il percorso delineato dai punti massimi dell’ombra dello gnomone di una meridiana, proiettati a mezzogiorno: in un intero ciclo solare, formano per l’appunto questo andamento spiraleggiante (si tratta di un percorso fisicamente rilevabile osservando in cielo il moto di Sol per un anno, dalla stessa posizione, ad una stessa ora: si chiama Analemma, qui). Se così fosse, la ‘legatura’ cui accenna Fulcanelli è dovuta al ‘vincolo’, generalmente dovuto al Mercurio, che trattiene uno Zolfo, il qual Zolfo, … viene fissato: … Ohibò!

Ma cos’è questa massa, della quale Fulcanelli non dice una-parola-una? Questo insettone appare ben strano, e c’è chi dice che sembra figurare un miscuglio di due corpi, un corpo di due nature: la grossa testa sembra quella di uno scarabeo cornuto, ed il corpo (sei zampe e due chele) e la coda (munita di pungiglione, o di una doppia chele) paiono indicare uno scorpione. Lo scarabeus (Ogni scarrafone è bello a mamma soja), che spingeva davanti a sé una palla di sterco e terra, era venerato in Egitto come un simbolo di resurrezione/rigenerazione; si chiamava kheperer, ed era nella palla di sterco che il coleottero custodiva le sue uova; l’abitudine venne collegata al mito del dio Khepri, il Sole che sorge ciclicamente generato dalla terra, così come appare sull’orizzonte, all’alba. Quanto allo scorpione, a parte che la sua puntura velenosa può essere mortale, non mi vien in mente granché.

Poi le ‘E’: ne sono visibile dodici, e potrebbero essere quindici se ne immaginiamo altre tre dietro la mérelle. Fulcanelli sostiene che quella ’E’ è “… il simbolo grafico che permette l’esatta identificazione del contenuto della conchiglia”. … Ho la sensazione che il gioco nascosto sia davvero sottile. Ma forse è meglio, per non guastar la festa, andare avanti …

Cassone 20 – L’Angelot … et les coquilles.

Fulcanelli commenta questo Cassone così: “Dans une autre figure, nous retrouvons l’enfant, – qui nous paraît jouer le rôle de l’artiste, – les pieds posés dans la concavité de la fameuse mérelle, et jetant devant lui de minuscules coquilles issues, semble-t-il, de la grande.”.

E Paolo: “In un’altra figura ritroviamo il bambino – che ci sembra rivesta il ruolo dell’artista – con i piedi posti sulla concavità della famosa capasanta e che getta davanti a sé minuscole conchiglie, provenienti, così sembra, dalla grande”.

[ibidem]

Il paffutello angioletto è ben pettinato ed ha un’aria tutto sommato paziente e serena: pare occupato a far cadere le conchigliette;  ma che senso avrebbe visto che sembrano figlie della grande su cui è comodamente seduto? Non sarebbe più facile semplicemente estrarle manin-manina dalla mérelle-Mère? Forse – e dico forse – le sta pulendo, con quel cesto di vimini? Le getta in aria, come per separare qualche sporcizia?

Beh, ci vorrà u po’ di tempo; ecco perché ha quello sguardo assorto …

Come abbiamo visto nell’esame di qualche altro Cassone, troviamo spesso nel Livre des Heures di Étienne Lallemant l’ispirazione; ma stavolta … è proprio precisa:

Curiosa corrispondenza, no? … dimenticavo: il Putto raffigurato nelle Heures è privo d’ali, mentre quello scolpito sul soffitto è in bella evidenza munito di alucce; e, a ben guardare, le piccole cerniere delle piccole conchiglie, tanto quelle scolpite che quelle dipinte … potrebbero essere prese per alucce, pure loro!

Cassone 21 – La ‘E’ tra le fiamme ….

Fulcanelli: “Le même signe, – substitué au nom de la matière, – apparaît dans le voisinage, en grand cette fois, et au centre d’une fournaise ardente.”.

E Paolo: “Lo stesso segno – sostituito al nome della materia – appare, questa volta più grande, nelle vicinanze, [e] in mezzo ad una fornace ardente.”.

[ibidem]

Torniamo dunque a quella ‘E’, misteriosa. Tanto per cominciare vi mostro come si apre il Livre des Heures di Étienne Lallemant :

Nel Capolettera di Étienne lo scarabeo proprio non c’è: per cui, o lo scalpellino di Jean si è sbagliato (la testa così grossa ed il corpo privo di anellature non assomigliano a quelli di uno scorpione), … oppure l’insettone di cui sopra, rappresenta solo uno scorpione, anche se raffigurato non proprio fedelmente[1]. A voi l’ardua sentenza!

Lo sfondo del magnifico Capolettera è il ben noto Blasone dei Lallemant, qui cosparso di ‘E’ (come nel Cassone 19, a dx della serie); al centro la bella valva della mérelle, aperta, in cui – guarda caso! – un nero scorpione viene ‘fissato’ dal filatterio che recita ‘Salus tu feris das’ (Tu ferisci, [tu] dai salute; lo scorpione ferisce, la mérelle guarisce); la pagina è quella corrispondente alla liturgia del 31 Dicembre, ed inizia con il Salmo 69 della Vulgata: “Deus, in adiutorium meum intende”. Come ho scritto in precedenza, Étienne potrebbe aver lasciato la carriera di avvocato al Parlement de Paris in seguito ad una pena d’amore, per poi prendere i voti e diventare Canonico di Tours e Bourges; il Livre des Heures, da lui commissionato, venne probabilmente completato prima del 1500, ed alla sua morte passò al fratello Jean Lallemant le Jeune; Jean, dunque, si è certamente ispirato alle decorazioni del Livre per la progettazione dei Cassoni di questa bizzarra Chapelle… ma torniamo a Fulcanelli: perché mai quel ‘signe’ potrebbe indicare la materia misteriosa (che figura dodici o quindici volte nel Cassone di dx)? Si potrebbe pensare ad un glifo che è ben presente in alcune antiche tavole che rappresentano simboli alchemici: la ‘E’ o la ‘Ɛ’ vi figura generalmente come la ‘cinis’, la cenere. Naturalmente, osservando il Cassone, l’operazione è certamente una Calcinazione; però, non è detto che quella ‘E’ bruci da sola: sembra che le fiamme, a punta, avvolgano e penetrino una sorta di corpo indefinito, ma senza spigoli, piuttosto confuso (al centro, sullo sfondo, addirittura si erge una specie di montagnola, che assomiglia a … qualcosa che si è rappreso; chissà); dice “… s’igne?”; risposta “… certo che s’igne, ma chilla E nun s’igne; è l’altro che s’igne, capatost’!”.

Se questa balzana ipotesi fosse degna di una qualche attenzione, allora in questa ‘fornace ardente’ ci sono due corpi: uno è misterioso, l’altro potrebbe essere rappresentato dal simbolo della cenere; … quale cenere? Per di più, c’è un apparente paradosso: in Alchimia operativa, la cenere è l’ovvio risultato di una Calcinazione; da quella cenere, sempre indicata dai buoni autori come ‘meravigliosa’ si deve poi estrarre un Sal, anzi il Sal, il quale è estremamente importante, perché … è il Sal Petræ, che non è ovviamente il Salnitro, bensì il vero Sale della Pietra, cioè della vera materia dell’Opera. Emozionati? … però, chi non ha lavorato obbietterà giustamente che, a rigor di logica, sarebbe del tutto assurdo pretendere di calcinare ancora una volta un sale, il quale è già il frutto di una calcinazione; eppure …

Allora, logica a parte, risponderei con una immagine, ben conosciuta, tratta dal Donum Dei:

Di fronte alla consueta perplessità dell’obbiettore, non profferirei altra parola che ‘cinis cinerum’; per poi aggiungere, de surcroit, che il nomen Étienne corrisponde al nostro Stefano; dice Wiki: “Στέφανος (Stéphanos, latinizzato in Stephanus), che letteralmente significa “corona” …”.

Direi io, all’obbiettore: “Parbleu, Monsieur … Sans une Couronne le Dauphin ne sera jamais un Roi, n’est pas?

A supporto del momento, vi lascio con un brano tratto da quale genio assoluto che fu Monteverdi, di scarsa qualità purtroppo, ma emozionante per il modo con cui il conduttore, Messer Marco Mencoboni, dirige il coro, davanti e dietro di sé; dalla Cattedrale di Lisbona, ecco a voi il Domine ad Adjuvandum, dall’incredibile Vespro della Beata Vergine:

Se poi, presi da Joie et curiosité, voleste dilettarvi dell’intero Vespro, di assoluto valore alchemico, vi lascio in santa pace (per un’ora e quarantaquattro minuti) con Sir John Gardiner, nell’esecuzione capolavoro tenutasi à la Chapelle Royale de Versailles:

À bientôt, mes Dames et mes Sires

tiens, mais encore … une autre Chapelle ?


[1] Ma lo scalpellino potrebbe essersi ispirato a raffigurazioni pittoriche coeve; in queste, per esempio, i soldati romani che assistono alla crocifissione di Gesù portano l’insegna dello scorpione, raffigurata su stendardi o scudi militari:

Oratorio di San Giovanni Battista, Urbino
Convento di Santa Maria degli Angioli, Lugano

Bourges – Hôtel Lallemant, Caissons – Serie VI

Posted in Alchemy, Alchemy Texts, Alchimia, Alchimie, Fulcanelli, Various Stuff with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on Tuesday, January 10, 2023 by Captain NEMO

Passate le Feste, riprendo lo studio del Plafond dell’Oratoire dell’Hôtel Lallemant con la sesta serie di Cassoni; non senza ricordare che – da questo punto in poi del ‘percorso’ tra Putti e oggetti vari – … l’aria cambierà leggermente; dopo infatti aver esaminato i due pilastri laterali, secondo Fulcanelli dedicati al Mercurio e lo Zolfo, la serie dei Caissons si estende verso l’unica finestra della supposta Chapelle, verso la Luce. A mio modesto avviso, da questo punto d’equilibrio in poi, i soggetti sono più dedicati, alchemicamente parlando, alle fasi che sottendono l’operatività dopo l’ottenimento del Mercurio e dello Zolfo; come è noto, si tratta ora di operazioni che riguardano la parte più sottile delle Materie in Opera. Dunque, sempre a mio avviso, il tenore dei contenuti dei Caissons sono mirati più all’Esprit che ad altro, ora in procinto di liberarsi ed agire nell’intimo delle Materie attraverso le loro proprie Mutazioni. L’enigma delle rappresentazioni si fa dunque più spirituale, non per l’aspetto religioso evocato cui molti hanno voluto legarsi, quanto proprio per il profumo in qualche modo etereo che li permea.

Ciò detto, torniamo allora ad immergerci, è il caso di dirlo, nella serie che ci attende.

Cassone 16 – Un Angelot in chemin, munito di Bâton e Filatterio.

Fulcanelli non commenta questo Cassone.

L’Angioletto – maschietto, nudo e ben pettinato – è leggermente meno paffuto del solito, e pare gettar lo sguardo al cammino percorso, o a qualcosa che sta alle sue spalle. Porta sulla spalla sinistra un evidente Bâton du Compagnon: direbbe il mio amico tresteverino: “ … e cche vvor dì ?” … come ho detto, l’enigma si fa più … enigmatico, no? Il Compagnonnage è (esiste ancora oggi, per quanto modernizzato alla bisogna) un fenomeno tipicamente francese, molto antico e ben radicato, che vide il suo apice tra il ‘500 ed il ‘600. Non è questo il luogo per esaminarne le origini e le declinazioni, ma basti dire, per quel che ci riguarda qui, che venivano chiamati Compagnons dei giovani viaggiatori che compivano un Tour de France (no, non si tratta del ciclismo, eh?) che poteva durare dai tre ai sette anni, e che – nel corso del loro Tour personale – imparavano un mestiere, quasi sempre legato alle Arti della Costruzione: carpentieri, stampatori, fabbri, maniscalchi, tagliapietre, scalpellini, incisori e via dicendo. La Confraternita, naturalmente – nata forse con le Cattedrali Medioevali -, si arricchì via via di complicati rituali: iniziazioni, padrini, soprannomi, battesimi con l’acqua ed il vino, prove, giuramenti di segretezza, parole di passo, e quant’altro; a differenza della più tarda Massoneria (specie quella del ‘700, che annoverava nelle sue Logge ed Obbedienze un gran numero di nobili, nobilastri e prodi militari), il Compagnonnage era più legato agli operai, veri protagonisti manuali delle arti che venivano loro affidate; tuttavia, per quanto affascinante possa risultare una Confraternita, qualsiasi Confraternita, antica o moderna che sia, essa è fatta di uomini, che, con i loro pregi, si portan inevitabilmente dietro (sempre) i loro tristi difetti; così, anche il Compagnonnage, si sviluppò con forti divisioni e confronti tra i vari gruppi di ‘eletti’ (quelli che di più litigavano per la supremazia erano Les Enfants de Salomon, Les Enfants de Maître Jacques e  Les Enfants du Père Soubise), convinti di essere portatori della solita abusatissima tradizione (con la minuscola); confronti che spesso uscivano dalla semplice dialettica per sfociare in conflitti persino fisicamente violenti, che durarono per decenni, e più. E come poteva andare la faccenda, quando si interpreta la Tradizione piegandola al potere e controllo, e non se ne conosce né il senso né l’origine? … More solito, no?

Tornando ad res: il Bâton era un oggetto emblematico del Compagnon, che all’interno dell’impugnatura aveva una cavità, nella quale venivano conservati i documenti pertinenti al grado, all’appartenenza alla loge-mère, e varie amenità; la punta, invece, era ovviamente legata o alla difesa, o al semplice e comune appoggio nel camminare: il nostro Angelot lo mostra in bella evidenza.

Alle sue spalle si srotola un Filatterio, che si poggia sull’impugnatura, forse per indicarne la cavità (?). Alla luce di quanto detto, insomma, si potrebbe ritenere che la scultura voglia segnalare: A) – il Compagnonnage; B) la necessità di un percorso, un cammino, particolare; C) la canna, al cui interno di nasconde qualcosa di estremamente utile per l’Opera; quest’ultima ipotesi potrebbe meritare una chiosa, leggera leggera: Prometeo nascose il fuoco dentro una canna di νάρθηξ, come Eschilo recita nel Desmotes (109-10): ‘A caccia vado della furtiva fonte di un fuoco di cui riempir la canna.’.

Questo Bâton, inoltre, figura a iosa nelle curiose illustrazioni che arricchiscono il Livre des Heures di Étienne Lallemant; le abbiamo già incontrate studiando le serie precedenti; ve ne mostro un altro paio, assieme a due capolettera ‘parlanti’, anche per apprezzare la bellezza dell’acquerello.

Cassone 17 – Un Leone ed un Braciere capovolto.

Fulcanelli commenta questo Cassone così: “Voici maintenant un vase renversé, échappé, par rupture de lien, à la gueule d’un lion décoratif qui le tenait en équilibre: c’est une version originale du solve et coagula de Notre-Dame de Paris.”.

La traduzione offerta da Paolo è assolutamente preziosa e perfetta: “Ecco un vaso rovesciato, sfuggito grazie alla rottura di un legaccio dalle fauci di un leone decorativo, che lo teneva in equilibrio: è una versione originale del solve et coagula di Notre Dame di Parigi.”.

Come sempre, consiglio di legger con calma e tranquillità, anche dietro le righe, le due versioni, senza cercarne una logica, sempre forzata; logica inutile, di fatto; a guardar bene, infatti, non si può che sorridere della astuta benevolenza con cui i due alchimisti hanno voluto costruire questa frase apparentemente secca ma significativa.

Se c’è chi ritiene che Fulcanelli si riferisca alla Planche XIV dell’edizione originale de Le Mystère des Cathédrales (intitolata La Dissolution – Combat des deux Natures; nell’Edizione italiana è la Tavola XXV), oppure alla Planche XII (intitolata La Reine terrasse le Mercure, Servus Fugitivus; nell’Edizione italiana è la Tavola XXI)[1], forse si dovrebbe tener presente che esiste anche un’altra possibilità, cioè quella rappresentata dalla Planche XVII (intitolata Solve et Coagula; nell’Edizione italiana è la Tavola XXVIII):

… che Fulcanelli presenta come “… l’homme retourné, qui traduit au mieux l’apophtegme alchimique solve et coagula, lequel enseigne à réaliser la conversion élémentaire en volatilisant le fixe et fixant le volatil; …”.

Naturalmente, come accade spesso nello studio dei testi, il lettore dovrà trovare la sua propria soluzione, tenendo presente che – sebbene la tecnica operativa possa talvolta apparire simile – è il contesto operativo il terreno da cui partire per riflettere, vale a dire ciò che precede e ciò che deve seguire.

Ciò detto, il Caisson è tra i più belli ed interessanti: questo renversement parlante, mostra che sua maestà le Lion (solaire?) trattiene tra le fauci (la gueule) i resti ‘del legaccio che lo teneva in equilibrio’; si dovrebbe ritenere, pare, che – prima della rupture – il ‘legame’ … teneva; insomma, manteneva il Vaso (ohibò!) in equi-librio; dopo, par di dover concludere che una parte di quel legame … resta nella gueule del Lion. … Sornione ‘sto Leone così solare, non vi pare? … Tutti sanno che simboleggia lo Zolfo, ma ricordo che l’ultra-famoso Lion Vert (☿), stringe tra le fauci un Sole sanguinante (i.e., che prima sanguina, perché è sang-l-ant), e tutti i migliori autori ci informano che dopo questa operazione il Lion Vert, inteso come quello acerbo, diverrà il Lion Rouge (🜍), maturo … prima di stupirsi troppo di questa misteriosa mutazione, val la pena ricordare cosa scrisse a proposito del ‘Lion’ quell’Illuminato mattacchione di Dom Pernety:

In generale è ciò che [i Filosofi Chimici] chiamano il loro Maschio o il loro Sole, sia prima che dopo il confezionamento del loro mercurio animato. Prima del confezionamento, è la parte fissa, o materia capace di resistere all’azione del fuoco. Dopo il confezionamento, è ancora la materia fissa che occorre utilizzare, ma più perfetta di quanto fosse prima. All’inizio era il Leone Verde, [e] diventa Leone Rosso per mezzo della preparazione. È con il primo che si fa il mercurio, & con il secondo che si fa la pietra o l’elixir. … Quando si servono del termine Leone per significare il loro mercurio, vi aggiungono l’epiteto qualificativo verde, per distinguerlo dal mercurio digerito & fatto zolfo.

[Pernety, Dictionnaire Mytho-Hermétique – 1758]

Consiglierei di continuare la lettura dell’intero brano, specie quello che Pernety attribuisce a Ripley.

Quanto al Vaso, sottolineo che esso – pur rovesciato – è evidentemente fiammeggiante.

Cassone 15 – L’Angelot courant e lo Chapelet.

Fulcanelli commenta: “Un second sujet, peu orthodoxe et assez irrévérencieux, suit de près: c’est un enfant essayant de briser un rosaire sur son genou.”.

Per prima cosa va detto che, come abbiamo visto nella Serie III (qui), non si tratta propriamente di un Rosario, cioè l’oggetto legato alla liturgia religiosa, quanto dello Chapelet che decora tutti i blasoni dei componenti della Confraternita dei ‘Chevaliers de l’ordre de Notre-Dame de la Table-Ronde’, che ho mostrato qui; è composto da cinque decine i cui Pater erano d’oro, e gli Ave di corallo, legati da un filo di seta verde. Quello qui raffigurato pare composto da tredici grani divisi in cinque paia a partire dalla piccola croce patente (a sx), e termina con tre grani dalla parte della frangia (a dx). Visto che lo Chapelet raffigurato nei blasoni dell’Ordre è ben più lungo di questo, si ha l’impressione che i numeri a cui si allude non siano proprio casuali …

Questo è quello appartenuto a Jehan Lallemant l’aineé:

Da: Statuts et armoiries des chevaliers de la Table Ronde de Bourges
Ms. Harley 5301- British Library

L’Angioletto, dai capelli riccioluti, sembra correre; ma potrebbe anche essere inginocchiato: in quest’ultima lettura si potrebbe forse capire perché Fulcanelli affermi che l’Angioletto tenti di rompere il filo del Chapelet; in questo caso … sta forse sottolineando il desiderio di rompere un legame?

Per concludere: come per alcune serie, direi che il tema centrale di questa, infatti, sia la rupture del lien: il Caisson centrale è affiancato dai due Putti alati; quello di destra suggerisce uno stato antecedente, da cui è partita tutta l’Opera, mentre quello di sinistra rafforza il momento topico, quella della mutazione del verso (il renversement), che è tutto centrato sul ruolo del legame (le lien). L’enigma sottile cui accennavo all’inizio potrebbe essere riassunto dalla ben nota raccomandazione delle nonne:

Chi ben comincia, è alla metà dell’Opera!

À bientôt, mes Dames et mes Sires …


[1] Secondo Fulcanelli, questa Tavola si riferisce ad una tecnica poco utile: “Or, nous ne voyons pas quel avantage on pourrait retirer d’une solution de mercure obtenue à l’aide du solvant philosophique, celui-ci étant l’agent majeur et secret par excellence.”.

Bourges – Hôtel Lallemant, Caissons – Serie V

Posted in Alchemy, Alchemy Texts, Alchimia, Alchimie, Fulcanelli, Various Stuff with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on Wednesday, February 2, 2022 by Captain NEMO

Proseguiamo nello studio del Plafond dell’Oratoire dell’Hôtel Lallemant con la quinta serie di Cassoni:

Cassone 13 – Un avanbraccio infuocato e i sette ricci di Castagne

Fulcanelli commenta questo Cassone: ‘… nous présente un avant-bras enflammé dont la main saisit de grosses châtaignes ou marrons.’.

… ci presenta un avambraccio infiammato la cui mano afferra delle grosse castagne o marroni.’.

In realtà, la mano sembra afferrare dei ricci di castagne – che quanto meno sembrano di castagne: a dir la verità, quei ricci che appaiono rotti (cinque), sembrano non contenere il frutto di cui parla Fulcanelli. E l’avambraccio è marcato dall’evidente grafismo delle fiamme, di un fuoco piuttosto forte, che pare scendere verso la mano (si scorgono le vene gonfie, a significare – clinicamente parlando – un’infiammazione!); al di sopra, in bella evidenza, un filatterio, muto.

Evidentemente, questo tema dell’avambraccio era ben conosciuto all’epoca; Fulcanelli, d’altra parte, non ha trascurato di commentarne la raffigurazione scolpita, per due volte, nel suo minuzioso esame del soffitto della loggia del castello di Dampierre sur Boutonne. Eccone la prima:

Perçant les nuées, une main d’homme lance contre un rocher sept boules qui rebondissent vers elle. Ce bas-relief est orné de l’inscription:

.CONCVSSVS . SVRGO.

Heurté, je rebondis. Image de l’action et de la réaction, ainsi que de l’axiome hermétique Solve et coagula, dissous et coagule.

Un sujet analogue se remarque sur l’un des caissons du plafond de la chapelle Lallemant, à Bourges ; mais les boules y sont remplacées par des châtaignes. Or, ce fruit auquel son péricarpe épineux a fait donner le nom vulgaire de hérisson (en grec eχinoç, oursin, châtaigne de mer), est une figuration assez exacte de la pierre philosophale telle qu’on l’obtient par la voie brève. Elle paraît, en effet, constituée d’une sorte de noyau cristallin et translucide, à peu près sphérique, de couleur semblable à celle du rubis balai, enfermé dans une capsule plus ou moins épaisse, rousse, opaque, sèche et couverte d’aspérités, laquelle, à la fin du travail, est souvent crevassée, comme l’écale des noix et des châtaignes. Ce sont donc bien les fruits du labeur hermétique que la main céleste jette contre le rocher, emblème de notre substance mercurielle. Chaque fois que la pierre, fixe et parfaite, est reprise par le mercure afin de s’y dissoudre, de s’y nourrir de nouveau, d’y augmenter non seulement en poids et en volume, mais encore en énergie, elle retourne par la coction à son état, à sa couleur et à son aspect primitifs. On peut dire qu’après avoir touché le mercure elle revient à son point de départ. Ce sont ces phases de chute et d’ascension, de solution et de coagulation qui caractérisent les multiplications successives qui donnent à chaque renaissance de la pierre une puissance théorique décuple de la précédente. Toutefois, et quoique beaucoup d’auteurs n’envisagent aucune limite à cette exaltation, nous pensons avec d’autres philosophes qu’il serait imprudent, au moins en ce qui concerne la transmutation et la médecine, de dépasser la septième réitération. C’est la raison pour laquelle Jean Lallemant et l’Adepte de Dampierre n’ont figuré que sept boules ou châtaignes sur les motifs dont nous parlons.“.

Si tratta del Cassone 1, della Serie VI da Les Demeures Philosophales; ecco la mia traduzione del passo:

Forando le nubi, una mano d’uomo lancia contro una roccia sette sfere che rimbalzano verso di essa. Questo bassorilievo è ornato dell’iscrizione:

.CONCVSSVS . SVRGO.

Scosso, sorgo[1]. Immagine dell’azione e della reazione, oltre che dell’assioma ermetico Solve et coagula, dissolvi e coagula.

Un soggetto analogo si nota su uno dei cassoni del soffitto della cappella Lallemant, a Bourges, ma le sfere vi sono rimpiazzate da delle castagne. Ora, questo frutto al quale il suo pericarpo spinoso ha fatto dare il nome volgare di riccio (in greco eχinoç, riccio, castagna di mare), è una rappresentazione abbastanza esatta della pietra filosofale come la si ottiene per la via breve. Essa appare, in effetti, costituita di una sorta di nocciolo cristallino e traslucido, quasi sferico, di colore simile a quello del rubino balascio, racchiuso in una capsula piò o meno spessa, rossastra, opaca, secca e coperta di asperità, la quale, al termine del lavoro, è spesso solcata, come il mallo delle noci e delle castagne. Sono dunque proprio i frutti del lavoro ermetico che la mano celeste getta contro la roccia, emblema della nostra sostanza mercuriale. Ogni volta che la pietra, fissa e perfetta, viene ripresa da parte del mercurio per esservi dissolta, di esservi nutrita di nuovo, di accrescersi non soltanto di peso e di volume, ma anche di energia, essa ritorna mediate la cottura al suo punto di partenza, al suo colore ed al suo aspetto primitivi. Possiamo dire che dopo aver toccato il mercurio essa ritorna al proprio punto di partenza. Sono queste fasi di caduta ed ascensione, di soluzione e di coagulazione che caratterizzano le moltiplicazioni successive che danno ad ogni rinascita della pietra una potenza teorica decupla della precedente. Tuttavia, e per quanto molti autori non considerino alcun limite a questa esaltazione, noi riteniamo con altri filosofi che sarebbe imprudente, almeno per ciò che concerne la trasmutazione e la medicina, di oltrepassare la settima reiterazione. È la ragione per la quale Jean Lallemant e l’Adepto di Dampierre non hanno raffigurato che sette sfere o castagne nelle decorazioni di cui parliamo.”.

Tralascio qui la seconda parte di questo Commento, per non tediare troppo il lettore: si tratta in ogni caso di aspetti tecnici, peraltro molto avanzati, che potranno essere letti con tutto comodo da parte di chi fosse interessato ad approfondirli.

Torniamo dunque alla seconda raffigurazione, per così dire brachiale, presentata a proposito di Dampierre:

Posé sur l’autel du sacrifice, un avant-bras est consumé par le feu. L’enseigne de cet emblème igné tient en deux mots:

. FELIX . INFORTVNIVM .

Heureux malheur ! Quoique le sujet semble, à priori, fort obscur et sans équivalent dans la littérature et l’iconographie hermétiques, il cède pourtant à l’analyse et s’accorde parfaitement avec la technique de l’Œuvre.

L’avant-bras humain, que les grecs nommaient simplement le bras, βραχίων, sert d’hiéroglyphe à la voie courte et abrégée. En effet, notre Adepte, jouant sur les mots et cabaliste instruit, dissimule sous le substantif βραχίων, bras, un comparatif de βραχίως, qui s’écrit et se prononce de la même façon. Celui-ci signifie court, bref, de peu de durée, et forme plusieurs composés, dont βραχύτης, brièveté. C’est ainsi que le comparatif βραχίως, bref, homonyme de βραχίων, bras, prend le sens particulier de technique brève, ars brevis.

Mais les Grecs se servaient encore d’une autre expression pour qualifier le bras. Lorsqu’ils évoquaient la main, χείρ, ils en appliquaient, par extension, l’idée au membre supérieur tout entier, et lui donnaient la valeur figurée d’une production artistique, habile, d’un procédé spécial, d’une manière personnelle de travail, en résumé d’un tour de main acquis ou révélé. Toutes ces acceptations caractérisent exactement les finesses du Grand Œuvre dans sa réalisation prompte, simple et directe, puisqu’elle ne nécessite que l’application d’un feu très énergique, à laquelle se réduit le tour de main en question. Or, ce feu n’est pas seulement figuré, sur notre bas-relief, par les flammes, il l’est encore par le membre lui-même, que la main indique comme étant un bras dextre ; et l’on sait assez que la locution proverbiale ” être le bras droit ” se rapporte toujours à l’agent chargé d’exécuter les volontés d’un supérieur, – le feu dans le cas présent.”.

Si tratta del Cassone 3, della Serie III da Les Demeures Philosophales; eccone la mia traduzione:

Poggiato sull’altare del sacrificio, un avambraccio viene consumato dal fuoco. L’insegna di questo emblema igneo è fatta da due parole:

. FELIX . INFORTVNIVM .

Felice sventura! Sebbene il soggetto sembri, a priori, molto oscuro e senza equivalenti nella letteratura ermetica, si arrende però all’analisi e si accorda perfettamente con la tecnica dell’Opera.

L’avambraccio umano, che i greci chiamavano semplicemente il braccio, βραχίων, serve da geroglifico della via corta e accorciata. In effetti, il nostro Adepto, giocando con le parole da cabalista istruito, dissimula sotto il sostantivo βραχίων, braccio, un comparativo di βραχίως, che si scrive e si pronuncia allo stesso modo. Questo significa corto, breve, di poca durata, e forma numerosi composti, tra cui βραχύτης, brevità. È così che il comparativo βραχίως, breve, omonimo di βραχίων, braccio, prende il senso particolare di tecnica breve, ars brevis.

Ma i greci si servivano anche di un’altra espressione per esprimere il braccio. Quando evocavano la mano, χείρ, ne applicavano, per estensione, l’idea al membro superiore tutto intero, dandogli il valore figurato di una produzione artistica, abile, di un procedimento speciale, di un modo personale di lavoro, insomma di un giro di mano acquisito o rivelato. Tutte queste accezioni caratterizzano esattamente le finezze della Grande Opera nella sua realizzazione pronta, semplice e diretta, poiché essa non necessita che dell’applicazione di un fuoco molto energico, alla quale si riduce il giro di mano in questione. Ora, questo fuoco non è soltanto raffigurato, sul nostro bassorilievo, mediante le fiamme, ma lo è anche mediante il membro stesso, che la mano indica come essere un braccio destro; e sappiamo abbastanza che la locuzione proverbiale ‘essere il braccio destro’ si rapporta sempre all’agente incaricato di eseguire le volontà di un superiore, il fuoco nel presente caso.”.

Anche per questo secondo Commento tralascio la seconda parte.

Ricordo ancora che Il Mistero delle Cattedrali venne pubblicato nel 1926, mentre Le Dimore Filosofali venne pubblicato nel 1930; e che le due edizioni mostrano in taluni passaggi la presenza di più mani.

Sia come sia, credo sia importante sottolineare che, a mio avviso, questi due brani tratti da Les Demeures Philosophales fanno largo uso dei diversi livelli di lettura, e quindi anche di esatta comprensione, che caratterizzano tutte le buone opere d’Alchimia. E mi permetto dunque di consigliare allo studente la massima attenzione. Più si avanza nello studio e nella pratica di Laboratorio, più è indispensabile riflettere sul contenuto dei testi, come sui contesti operativi cui Fulcanelli intende riferirsi. É buona norma, insomma, adottare prudenza: gli insegnamenti offerti sono ottimi, ma talvolta … è meglio riflettere meglio.

Se le tre sculture mostrano questo avambraccio infiammato, il motivo di questa scelta di Fulcanelli è senza dubbio il Fuoco; ma siccome – ovviamente – il Fuoco è il protagonista indiscusso dei lavori, occorre domandarsi, in ogni lettura, e/o riflessione da esse scaturita, di quale Fuoco si stia parlando, e – simultaneamente – del contesto operativo cui quell’insegnamento pare riferirsi.  

Cassone 14 – Il Putto, il Libro e il Serpente.

Fulcanelli commenta questo Cassone così: “Là, le même bambin, agenouillé près d’une pile de lingots plats, tient un livre ouvert, tandis qu’à ses pieds gît un serpent mort. Devons-nous nous arrêter ou poursuivre ? – Nous hésitons. Un détail situé dans la pénombre des molures, détermine le sens du petit bas-relief; sur la plus haute pièce de l’amas figure le sceau étoilé du roi mage Salomon. En bas, le mercure; en haut, l’Absolu. Procédé simple et complet qui ne comporte qu’une voie, n’exige qu’une matière, ne réclame qu’une opération. ‘Celui qui sait faire l’Œuvre par le seul mercure a trouvé tout ce qu’il y a de plus parfait.’. Tel est du moins ce qu’affirment les plus célèbres auteurs. …”.

Prima di tutto va notato che ‘il medesimo bambino’ cui Fulcanelli si riferisce è quello che fa pipì nello zoccolo, appartenente alla Serie precedente (Cassone 10); quello (ma è una ‘lei‘!) è alato, questo è senz’ali; quello aveva una cuffietta da notte; questo ha invece il capo cinto di perle e/o gemme. Ha in mano un libro aperto, e sopra di lui in bella evidenza, ancora un filatterio, muto. In basso a sinistra, in primo piano, si vede un serpente scaglioso, che sembra morto; sullo sfondo, un ammasso dalla forma un po’ inusuale: pare una materia in qualche modo stratificata, la cui cima appare sormontata da una materia che sembra sia stata colata, e solidificata. Ora, se il serpente mostra il glifo dell’infinito, l’affermazione secondo la quale in cima all’ “ammasso figura il sigillo stellato del re mago Salomone” appare piuttosto curiosa; da un mio esame di quanto visibile nella foto (fatta in questi anni) si vede qualcosa che – davvero a fatica – potrebbe essere identificata come il glifo ben noto:

Per cui – date le dimensioni di un Cassone e l’altezza del soffitto – si deve ritenere che … o qualcuno era in possesso di una scala, oppure di un vecchio disegno (magari del progetto iniziale), oppure di un’informazione particolare; non v’è dubbio, comunque, che l’affermazione sarebbe alchemicamente pertinente, visto l’assieme costituito dalla simbologia del serpente scaglioso (il mercure, ma non alato), da quel curioso “amas” – le cui sembianze sono ben poco equivocabili (“Ab-solu”) -, dal Putto e la sua natura (privo di ali) e dal livre ouvert in bell’evidenza. D’altro canto, Fulcanelli afferma in modo chiaro che il Cassone – come il precedente – si riferisce al procedimento operativo che viene chiamato Via Breve.

Cassone 15 – L’avambraccio, il fuoco, e lo stampo.

Fulcanelli, riferendosi al Cassone 14, commenta questo Cassone così: “… plus loin le même hiéroglyphe [i.e., un avant-bras enflammé], sortant du roc, tient une torche allumée …”.

… più lontano il medesimo geroglifico, [i.e., un avambraccio infiammato], uscente dalla roccia, impugna una torcia accesa.‘.

Ed ecco ancora un avambraccio, fortemente legato alle fiamme: sulla parte sinistra si vedono rocce piuttosto squadrate immerse nelle fiamme; da esse esce l’avambraccio – che pare avvolto in una sorta di manica protettiva, fino al polso – la cui mano (con le vene fortemente in rilievo) impugna un oggetto, anch’esso avvolto dalle fiamme; il mio amico Injubes vi vede un astuccio dalla cui parte superiore fuoriescono cinque foglie innervate, mentre uscendo dal fondo si distinguono – forse – i relativi steli. L’avambraccio è infilato in un filatterio, ancora muto.

Per ciò che riguarda l’identità dell’oggetto, credo potrebbe essere più appropriato – vista la presenza manifesta di fiamme – vederlo come uno stampo da colata, cilindrico: difficile in quel contesto ‘leggerlo’ come una ‘torcia accesa’, no? Quanto al contenuto: quelle foglie esprimono la vegetabilità[2] della materia lavorata nel contesto operativo raffigurato; Fulcanelli parla – per questa serie – dei procedimenti legati alla Via Breve, la quale, come è noto, prevede una destrezza consolidata dall’esperienza ormai acquisita da parte dell’Artista: anche nella raffigurazione di questo cassone, infatti, si percepisce che è richiesta una maggiore attenzione, dovuta al miglior controllo del fuoco, sia in termini di quale fuoco, sia nella sua applicazione, cioè nel controllo accurato della temperatura.

E concludo questa quinta parte: non v’è dubbio che questi tre cassoni parlino d’Alchimia; ciò non vuol significare che i Lallemant fossero necessariamente Adepti, quanto che quel tipo di raffigurazione – gli avanbracci infiammati – faceva parte di un patrimonio culturale preciso; ma già allora, dobbiamo ritenere, dalla doppia lettura: uno di facile comprensione, ‘colpito, salgo in alto’; l’altro, con un significato operativo più riservato, segreto, legato alla pratica di una Via alchemica (l’Ars Brevis) di per sé già molto rara, oggi come allora. Nel progetto iniziale delle due opere firmate ‘Fulcanelli’ – che prese le mosse proprio da Bourges a metà ‘800 – le cosiddette Dimore Filosofali dovevano probabilmente fare da sostegno alle Cattedrali, ma gotiche. Poi, e ne ignoriamo il motivo preciso (se non che la sua riorganizzazione editoriale mutò una volta che i ‘giovani’ del gruppo di Bourges si trasferirono a Parigi agli inizi del ‘900), quel progetto, con la supervisione di Dujols, cambiò; Canseliet e Champagne – anch’essi molto giovani – fecero del loro meglio al fine di portare alle stampe i due volumi.

Sia come sia, i quattro avambracci infiammati’, misteriosi, trovarono posto in entrambi i volumi: due nel MdC (1926) con un brevissimo esame del plafond dei Lallemant, e due nel LDP (1930) con un lungo esame del plafond di Dampierre, questa volta con due palesi moniti sulla destrezza indispensabile per compiere senza pericolo la Via Breve.

Una cosa è certa: per comprendere almeno il contesto di quelle quattro raffigurazioni, così particolari, occorre senza dubbio essere molto avanti nella pratica alchemica, e nella sua tecnica di Laboratorio. Fulcanelli, chiunque egli sia, fu senza dubbio prima addestrato allo studio attento e approfondito dei testi, e in seguito ha praticato, a lungo, con assiduità, la Via Unica, per arrivare – poi – a comprendere la modalità singolare della Via Breve. Stento ad attribuire questa sensibilità acquisita, e così avanzata, ai Lallemant. Ma nulla deve mai esser dato per scontato, anche nella storia dell’Alchimia. Ma la testimonianza visuale di questa serie indica con precisione che quantomeno i decoratori, gli scultori, et alia, portavano nel bagaglio delle loro esperienze quelle rappresentazioni, appartenenti agli Emblemata di tipo morale e religioso che videro la luce tra il ‘500 ed il ‘600.

Fatto è, però, che il fiume dell’Alchimia percorre in modo carsico, ma in bella evidenza, tutta la cultura naturale della nostra specie. Da secoli e secoli.  La summa di questa terna, dunque, ci parla di una cosa fissa (non ha le ali nemmeno il serpente, scaglioso – che Fulcanelli specifica esser morto) che viene ottenuta – grazie al fatto che il livre è ouvert – mediante l’applicazione appropriata … di un fuoco appropriato (sia in termini di substantia, che di gradus); il risultato di questa lavorazione focosa e così delicata fornisce una materia vegetabile, capace cioè di “cuocere, digerire e perfezionare” … qualche altra cosa!

Resta da trovare, però, un pezzetto mancante

Ah, les merveilles d’Alchimie …

À bientôt, mes Dames et mes Sires …


[1] Il verbo surgo, significa sorgere, nascere, levarsi, salire verso l’alto. Fulcanelli traduce surgo con je rebondis, che significa io rimbalzo: a mio modesto avviso il verbo francese qui usato non traduce il verbo latino correttamente, sebbene ben descriva la dinamica che sembra essere stata rappresentata dallo scultore nel cassone in esame.

[2] La végétabilité è una Qualitatem precisa che, in Alchimia, appartiene al minerale: Dom Pernety lo spiega così (1758): “… non bisogna confondere una materia vegetale o che vegeta, con una materia vegetabile, o che possiede una virtù vegetativa. È per questo che [i Filosofi] non dicono che la loro saturnia è vegetale, ma vegetabile, & la chiamano così seguendo l’indicazione di molti tra loro, poiché essa possiede un’anima vegetativa, che la cuoce, la digerisce, & la conduce alla perfezione desiderata. … I Filosofi hanno tuttavia talvolta dato al vino il nome di gran vegetabile; ma il vino bianco & il vino rosso di Raymondo Lullo sono i mestrui dei Saggi, & non i vini bianchi & rossi volgari.”. Questo brano così chiaro ed esatto, genererà senza dubbio una certa complaisance nella maggior parte dei lettori; agli studenti, per contro, raccomando molto la prudence, di cui supra. Molta prudence.

Bourges – Hôtel Lallemant, Caissons – Serie IV

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Passato il periodo delle Feste, continuiamo l’esame del Plafond dell’Oratoire dell’Hôtel Lallemant con la quarta serie di Cassoni:

Cassone 10 – Un Angioletto fa pipì nello zoccolo

Fulcanelli commenta questo Cassone: ‘Voici, – quel singulier motif pour une chapelle – un jeune enfant urinant à plein jet dans son sabot.’.

Ecco, – che motivo singolare per una cappella – un bambinello che urina a tutta forza in uno zoccolo.’.

A ben guardare, si tratta di una bambinella, alata, che apre la parte inferiore della sua tunica; la qual bimbetta – con una mira che ha del perfetto! – dirige il suo getto di pipì all’interno di uno zoccolo, di legno. La scenetta descrive un jeu d’enfants: di notte – la bimba, oltre la tunichetta da letto, indossa anche la cuffietta per dormire – l’inarrestabile desiderio fisico di liberarsi viene soddisfatto senza indugio: invece di recarsi verso un bagno, o usare il classico vasino da notte, l’angioletta trova uno zoccolo e lo usa per far pipì: non è un dispetto, quanto piuttosto un gesto da monella, … che sa di non esser vista!

… e la pipì pare davvero tanta, visto la cura con cui l’artista ha scolpito il getto, quasi un torchon, ma dritto dritto, per esprimere la forza con cui la piccola monella, in piedi, soddisfa il proprio istinto primario: liberarsi. … tale è la forza, che pare bagnarsi un po’ la gamba destra.

Canseliet, parlando dell’altrettanto famosa Fontaine Indécente (in Deux Logis Alchimiques), si ricollega a questo Cassone dell’Hôtel Lallemant:

Pourvue de ses deux ailes, comme il se doit, l’enfant céleste ne s’en tient pas moins campée sur ses deux jambes, afin d’ouvrir, tel un rideau, le vêtement qui la recouvre. Ainsi dirige-t-elle, dans un sabot de bois, habilement, malgré son attitude, à la fois verticale et difficultueuse, le jet oblique et roide de son virginal pipi.’.

‘Provvista di due ali, come si conviene, l’infante celeste sta comunque ben piantata sulle gambe in modo da aprire, come un sipario, la veste che la ricopre. Dirige così abilmente – malgrado la sua posizione, a sua volta verticale e difficoltosa – in uno zoccolo di legno, il getto obliquo e teso della sua pipì verginale.’.

Un esame più approfondito di questo Cassone – magnifico per la sua sfrontatezza, quanto, giustamente, illogico e irriverente in una Chapelle – ci porterebbe molto lontano (ne ho a suo tempo trattato, qui), e quindi mi limiterò a sottolineare alcuni spunti di riflessione: si tratta di una fase primaria della Grand Œuvre, relativa ad un Solve molto peculiare; tra una materia ricevente, usualmente vile e nerastra (raffigurata in genere con un Sabot o con un Chapeau (…toh!)), cui viene congiunta un’aqua. Quest’aqua è ovviamente di natura mercuriale, e ricorda tanto quella del fanciullo-che-fa-pipì-da-una-nuvoletta (nella famosissima Tavola dello Speculum Veritatis), ma – all’uopo – necessita di un’accorta (cioè, … avveduta!) correzione, per così dire; deve essere acuita, aguzzata.

Con che cosa? Tutti conoscono la risposta, talmente è diffusa nei buoni testi d’Alchimia: naturalmente, con il Sal Armoniac, no? Come avevo scritto, Paolo ci era venuto in soccorso (si parlava allora della immagine celeberrima della Cabala Mineralis di Simeon Ben Cantara; … ah, les beaux temps d’antan!), nel suo stile schietto e sempre sorridente:

… Le tre reiterazioni indicate dai tre fiori celesti ci fanno ottenere questo mercurio, sale di pietra o sale armoniaco, che viene irrorato dalla rugiada e aguzzato dall’urina del fanciullo, il nostro ariete celeste. Otteniamo così l’acqua viva aguzzata e poi la stella dei saggi. Le aquile ci ricordano che questo in fondo è un processo di sublimazione…

… …Mi sono reso conto che non ho detto … perché “l’urina”. Mio Dio, è semplice, come al solito. É il nostro fuoco filosofico che libera il mercurio comune, il dissolvente, e gli si unisce per formare con lui l’acqua viva, che ne è appunto aguzzata (o acuita se preferite). Tra l’altro posso confermare che l’urina dell’ariete ha un fortissimo odore di ammoniaca, cioè di urina putrefatta.

I nomi usati dai maestri hanno sempre un senso molto banale e operativo.

Quanto al Sabot, Fulcanelli ha scritto ovunque che il suo senso alchemico è legato a quello della fava o del bambolotto bagnante, la Galette, alludendo ad un contenuto, evidentemente nascosto, … nel sabot:

…Notre galette est signée comme la matière elle-même et contient dans sa pâte le petit enfant populairement dénommé baigneur. C’est l’Enfant-Jésus porté par Offerus, le serviteur ou le voyageur; c’est l’or dans son bain, le baigneur ; c’est la fève, le sabot, le berceau ou la croix d’honneur ”.

La citazione di Fulcanelli – dove non occorre scomodare Grasset d’Orcet per ricostruire un pezzo del Puzzle alchemico al quale l’angioletta monella, colta sul fatto!, allude – è tratta da Il Mistero delle Cattedrali; consiglio vivamente il lettore, neofita o esperto che sia, di re-immergersi nello studio calmo, ma molto calmo, del passo su Offerus, la sua famosa Ceinture e la Galette des Rois (pp. 275-8, Edizione Italiana; chi può, lo legga in francese, perché … suona bene!). Mentre ricordo che il termine popolare Sabot (Çabot) proviene da Savate (per Ciabatta, femminile) e Bot (per Scarpa, … ma maschile), non posso evitare di sorridere allegramente di fronte a quello che Grasset d’Orcet, però, avrebbe saputo raccontare su quel ‘croix d’honneur’!

Cassone 9 – La Pollastra ed il Corno dell’Abbondanza

Fulcanelli commenta questo Cassone: ‘Ici, c’est la corne d’Amalthée, toute débordante de fleurs et de fruits, qui sert de perchoir à la géline ou perdrix, l’oiseau en question étant peu caractérisé; mais, que l’emblème soit la poule noire ou la perdrix rouge, cela ne change rien à la signification hermétique qu’il exprime.’.

Qui, [ecco] il corno d’Amaltea, tutto traboccante di fiori e di frutti, che serve da trespolo alla gallina o pernice, dato che l’uccello in questione non è ben caratterizzato; ma, che l’emblema sia la pollastra nera o la pernice rossa, ciò non cambia in nulla il significato ermetico che esso esprime.’.

La poule è la pollastra (chissà perché Fulcanelli la vede come nera), mentre la géline è la nostra gallina, che prende questo nome, generalmente, quando si accinge a fare uova; la gallina ovaiola, si sa, fa … le uova d’oro! Per contro, la Pernicerossa -, che in francese è la perdrix, deve il suo nome al latino perdix, che a sua volta viene dal greco pèrdix (πέρδιξ); sembra che così sia stata chiamata anticamente perché quando si alza in volo, dopo aver tentato di piedinare nascondendosi dove può, … ‘emette peti’ (dal lemma πέρδομαι), tanto che i greci la chiamavano anche ‘kakkabis’.

Ciò detto, di Amaltea (Ἀμάλθεια) sappiamo quasi tutto; era la tenera capretta con il cui latte le due Ninfe dei Frassini (Adrastea ed Io, figlie di Melisseo) alimentavano il piccolo Zeus, che era stato loro affidato da Rea per nasconderlo alla fama divorante di Cronos; il piccolo era nutrito anche con ambrosia, miele e nettare, ma provenienti da altri animali. Una volta cresciuto, Zeus spodestò il terribile padre e per ringraziare la capretta Amaltea creò la costellazione dell’Auriga, la cui stella più brillante è Capella (la ‘capretta’, la terza stella più brillante del cielo Boreale); ma si racconta anche – le fonti sono varie, anche perché ci si riferisce a storie pre-Olimpiche – che il bimbetto Zeus, mentre nel giocare andava cavalcando la sua tenera ed affezionata capretta, le spezzò un corno; le due Ninfe curarono prontamente Amaltea, e donarono il corno, riempito di frutti, al piccolo Zeus; una volta divenuto il capo di tutti gli Dei dell’Olimpo, Zeus restituì il corno alle due Ninfe gentili, ma stavolta era magico, perché per quanto se ne mangiassero i frutti e si cogliessero i doni in esso racchiusi, subito se ne riempiva di nuovo: era nato il Corno dell’Abbondanza (da Cornu Copiæ’). Sempre il Mito, ma in un’altra versione, racconta che Zeus volle anche creare la costellazione del Capricorno. In somma … melius abundare quam deficere, no?

Fulcanelli si riferisce a questo Corno d’Amaltea nell’esaminare un Medaglione di Notre Dame de Paris, intitolato ‘L’Origine e risultato della Pietra’, raffigurato alla Tavola XIX ne Il Mistero delle Cattedrali:

Nel secondo medaglione l’Iniziatore ci presenta con una mano uno specchio, mentre con l’altra alza il corno d’Amaltea; al suo fianco si vede l’Albero della Vita. Lo specchio simboleggia l’inizio dell’opera, l’Albero della Vita ne indica il fine e il corno dell’abbondanza il risultato.”.

Lascio al lettore l’onere di scoprire il senso che lega la gallina nera (o la pernice rossa, che va peteggiando quando s’alza in volo) che beccheggia nel corno di Amaltea, magari riflettendo sul fatto che Zeus viene alimentato dalla sua tenera nutrice con il suo latte, e che l’abbondanza eventuale cui si aspira deriva da una chose … certo più solida&compatta del latte nutriente, il quale, ohibò, suona come Gala!…

Cassone 12 – L’Angioletto con la ghirlanda e il sonaglio

Fulcanelli non commenta questo Cassone.

La raffigurazione, rispetto a quella di altri Cassoni, è davvero rovinata; vediamo un Angelot alato il cui volto ha le fattezze un po’ più adulte, con i capelli come pettinati all’indietro e lo sguardo rivolto verso l’alto; sulle spalle porta una ghirlanda, che sul suo lato sinistro è fermata con un nastro e termina con una nappa a forma di fiore a campanella; dal suo lato destro, purtroppo danneggiato, pende un filo che forma un anello attorno al pollice dell’Angioletto e va a terminare (anche qui al rilievo manca un pezzo) in un sonaglio.

Il mio amico ijnuhbes vi vede una raffigurazione del dolore, del contrasto tra le tristezze della vita terrena e le aspettative della vita post-mortem: quest’interpretazione, certo comprensibile, è sostenuta dal fatto che la ghirlanda sarebbe una corona funeraria (come le due corone, colorate di smalto verde, che figurano, lo vedremo, affisse sulle due colonne centrali dello studiolo, oratorio, o cappella che dir si voglia); e siccome l’Angioletto sembra avere una sorta di pietra che esce da una fenditura tra le gambe, quella sarebbe un gigantesco calcolo della vescica, che provocherebbe enormi dolori …; così, il tono generale, secondo quell’interpretazione sarebbe una rappresentazione della consapevolezza del dolore riservato all’uomo nella sua vita terrena.

Ora, la ghirlanda non ha certo una forma circolare (come quella di una qualsiasi corona funeraria) e quella fenditura, per quel che appare, mi pare più dovuta alla caduta della parte dell’impasto che raffigurava l’inguine, probabilmente dovuta al tempo o ad un’altra ragione; quella pietra-calcolo, peraltro troppo grande per risultare credibile, potrebbe invece essere una sorta di supporto inserito al momento della creazione del rigonfiamento dell’inguine da parte dello scultore, il cui scopo era quello di renderne visibile solo una piccola parte, per rappresentare i genitali (maschili o femminili). Se si osservano gli altri Angelots (su questo plafond, come anche quelli dipinti nelle Heures di Etienne Lallemant), l’ipotesi di un danno che ha messo in luce il trucco del supporto nascosto sotto l’inguine, dopo la caduta o il danneggiaento dell’impasto che lo rivestiva … potrebbe reggere.

Sia come sia, l’inserimento di una ghirlanda (gerbe) chiusa da sonagli da entrambe le parti, e l’espressione pacifica dell’Angioletto, paiono trasmettere serenità, persino sonoramente. Se poi questa serenitas sia da attribuire al contenuto alchemico dei due precedenti Cassoni, ciò è naturalmente materia opinabile, ma non impossibile. L’Angelot cammina con lo sguardo rivolto al Cielo, e gioca con i due sonagli della ghirlanda: allegria e speranza.

Per concludere questa sessione, credo di poter dire che il committente (i committenti?) abbia/no forse voluto far rappresentare un Jeu d’Enfants (molto conosciuto in Alchimia, e molto ben congegnato, peraltro) che si colloca in un certo inizio dell’Œuvre, affiancato da un’altra garbata allegoria legata ad una fase intermedia, ma importante ed esiziale, e conclusa – in questa terna – da una sonora pacificazione, celeste.

 À bientôt, mes Dames et mes Sires …