Stamane, more solito, vado dal fornaio; esco presto, l’aria è fresca e piacevole: incrocio un Runner, vestito in tuta spaziale come di prammatica, ma con bandana sexy sull’ormai tipico e noioso taglio di capelli para-qualcosa; un furgoncino di manovali passa, e uno di loro esclama: “ahò … ma ancora corri verso la libertà?”; “…si, eh! … poi ce vedemo stasera, ar bar!”, il furgoncino accelera ed una grigia zaffata di CO2 investe il Runner spazial-salutista. Io, per fortuna, cammino a mano destra, e mi salvo …
Detto questo a mo’ di Hors-d’œuvre, passo a presentarvi qualche passo d’Alchimia; da un po’ di giorni sono ritornato sul testo del Marchese Massimiliano Palombara (che in verità non è proprio un Savelli, ma un Palombara-e-basta, casata cadetta della vetusta casa Sabellica; poi, dal padre Oddo, prenderà il marchesato di Pietraforte, e la famosa Villa Trophea, nel paradisiaco Hortus della campagna della Roma del ‘600).
Il testo, per quanto noto come titolo, è poco conosciuto: il manoscritto originale venne presentato da Mino Gabriele nel suo Il Giardino di Hermes (1986); in precedenza (1983) Dama Partini aveva già pubblicato l’edizione di un altro manoscritto, il Reginense Latino 1521, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, proveniente dalla collezione di Christina di Svezia. Per ragioni che è poco rilevante specificare qui, preferisco il manoscritto autografo originale.
La Bugia – Opera d’incerto Autore nella quale si tratta della vera Pietra dei Sapienti si fa probabilmente risalire al 1656; il buon Marchese, dedica ben 12 capitoli a descrivere la sua lunga ricerca di lumi alchemici su tutti i testi sui quali riuscì a metter le mani, cercando ed acquistando le opere più rinomate. Come è di prammatica, si lamenta degli enigmi, degli inganni, delle contraddizioni, delle trappole di cui sono pieni tutti i testi alchemici degni di questo nome. E dopo 12 Capitoli, sempre di prammatica, offre la sua “… Parabola che con il lume della bugia sarà dal sapiente con somma facilità intesa e conosciuta” giurando e spergiurando che sarà onesto con il lettore … e va beh! … come ho detto, è prassi consolidata, no?
Aveva scritto al Cap. 5 che “ … finalmente, dopo varie riflessioni conclusi nell’animo che non poteva esser altro la materia che quella che dopo 22 anni di Studio, dopo infiniti argumenti e riflessioni – sento che Iddio mi ispira in un istante all’improvviso verso le 17 ore nel giorno di domenica alli tredici del mese di ottobre dell’anno 1652: parendomi che mi si aprisse l’intelletto che concludentemente, mentre quasi che con un raggio divino, mi si mostrasse quella vera luce la quale finora in tanto tempo sempre mi fu celata con una densa nuvola d’ignoranza, avendo per il passato fatta esattissima riflessione a tutte l’altre materie fora che a questa.”.
Nella Parabola, il marchese si reca in campagna, su un’alta collina verso Oriente, “la più bella ed insieme la più alta ed eminente”; lì, a fatica, gli par di scorgere “ … una grotta [esposta in faccia all’Oriente] … l’intrata di essa era ricoperta di quantità di canne e spine che ivi eran nate … esse canne, battute talora da uno zefiretto … dal quale di quando in quando piegate, poteva perciò avere qualche lume del celato passo chi esattamente avesse il tutto osservato.”.
Le canne erano alimentate “… da un ruscello che derivando ed uscendo dalla narrata grotta erano del continuo da quello bagnate, che poscia calando con soave mormorio per la falda del monte e restringendosi veniva a formare un fonte, dove mi presupposi di certo che venivano a prendere i savi il prezioso liquore con le loro tazze, …”.
Dopo aver inciso su una quercia lì vicino “… le seguenti parole: fons ortorum[1]” tanto per ricordare dove fosse quell’accesso nascosto, il nostro poetico Marchese, ‘sente’ – ovviamente – la voce di un oracolo, al quale rivolge 10 domande (le solite domande di un apprendista-cercatore d’Alchimia); l’oracolo gli risponde sempre in modo brevissimo: “Ut vir limo”, “Umili ortu”, ”Utor umili”, “Iuro multi”, “Tum vilior”, “Tu vir olim”, “Tu, umilior”, “Umor Luti”, “Romuli tui”, “Il tuo rio”.
E si prosegue: “Onde con quest’ultima risposta accertatomi meglio che il Mercurio desiderato era il rio o fiume minerale, che uscendo da una parte della miniera dei filosofi va calando per l’erbosi prati di tutto il mondo, mi confermai maggiormente, e tanto più che me lo chiamava mio, mentre senza aiuto di maestro alcuno, eccettuatone il favor divino, l’avevo ritrovato e ne avevo preso il possesso.”.
Quest’ultimo passaggio merita a mio avviso ogni tranquilla meditazione, ma molto, ma molto, approfondita: esso è preciso, inequivocabile, e – fisicamente – esatto, così come – alchimisticamente – rigoroso. Anche la chiusa finale parla chiaro: il maestro è solo la materia stessa (ma quella Materia! ,,, i.e., la Mater ea!), e si ri-trova, vale a dire viene ‘trovata di nuovo’; semplicemente, perché è presente e reperibile, essendo il nocciolo vero di ogni manifestazione di un qualsivoglia ‘corpus’. Altrettanto semplicemente, è ben nascosta, chiusa com’è nel cuore stesso della Materia. Quella fons, insomma, è racchiusa nell’intimo della Mater ea, laddove intimo è il superlativo di ‘intus’, ed esprime ‘ciò che è più dentro’.
Palombara afferma qui di averne preso ‘possesso’. Buon per lui, no? …
Evidentemente, per disporre di tale fons, occorre qualcosa, perché l’accesso al ‘dentro più dentro’ della Mater ea non è consentito con i mezzi volgari, ma soltanto con mezzi propri e disposti secondo le Leggi del Piano Naturale. Le quali – dato che attengono alla fisica Manifestazione dei corpi – sono di natura evidentemente Fisica, MA Alchimisticamente disposti secondo Madre Natura.
Pochi hanno parlato in modo onesto e/o somehow chiaro (per quanto possibile, ovviamente) di ‘come’ si possa fare; il Marchese Palombara lo farà a modo suo, e lo vedremo in un prossimo Post. Debbo tuttavia avvertire che come è ovvio che le 10 risposte fornite dall’oracolo sono tutte giochi di parole, o anagrammi assonnanti con ‘Vitriolum’, è altrettanto ovvio che:
A) non si tratta affatto del volgare solfato metallico ben conosciuto agli spagiristi e/o chimici d’oggidì;
B) non si tratta affatto di un grazioso e dotto Simbolo[2], come tutti – urbi et orbi – si sono affrettati a sottolineare; temo che, non sapendo che pesci pigliare, si sia fatto ricorso alla solita operazione intellettuale simbologica; ma siccome Alchimia nasce come una via operativa che manipola materie fisiche – pur dotate (che dico: … ricchissime!), come è Naturale, di Spiritus, il quale è anch’esso Materia, ma allo stato ‘fluido’ – è bene non farsi menar per il naso: il Vitriol di cui si parla in Alchimia, da secoli e secoli, è un ‘corpus’, minerale.
Punto.
Buone riflessioni!
Ah, sì … scordai … : ritornando a casa, stavolta a mano sinistra, passa il vecchio Alvaro che va a falciar fieno nei campi: … il trattore passa e mi scarica addosso, gentile, … una corposa dose di CO2!
Pur nella sregolatezza c’è equilibrio, no? … 🙂
[1] ‘ortorum’ NON è ‘hortorum’ [l’edizione di Dama Partini riporta ‘Hortorum’, MA come si ricava anche dal ms. Reg. Lat.1521 originale – al f. 15r – vi si legge ‘ortorum’!]: se il secondo termine in Latino è il genitivo plurale del sostantivo ‘hortus’, ad indicare ‘orto, giardino’, il primo termine è invece il participio passato del verbo deponente ‘orior’, declinato al genitivo plurale: esso indica ‘di chi è nato’, ciò che è ‘di chi è sorto’. Questa mia lettura non è casuale, e preferisco proporla piuttosto che tacerla: qualsiasi entrata in manifestazione ‘sorge’, implicando obbligatoriamente un ‘da dove’ ed un ‘a dove’; il ‘sorgere’ di ogni corpo è semplicemente un Moto, ‘da’ ‘a’. Ancora, debbo sottolineare che quel Moto cui si allude avviene nello Spazio, e quel Motus qui indicato si svolge in assenza totale di ciò che amiamo chiamare ‘tempus’, completamente al di fuori del ‘tempus’, dato che la Creazione è sempre e soltanto un continuum, senza inizio e senza fine; il nostro ‘tempus’ è insomma un’utile consuetudine locale, e NON Universale.
Ergo, quella ‘fons’, ‘il fonte del sorgere’ indicato dal Marchese Palombara illumina l’origine della Creazione e la meta dell’operatività alchemica.
[2] Ogni Simbolo, qualsiasi simbolo, può avere alcune centinaia di significati; tutti sempre leciti ed accettabili. Ma il gioco dei Simboli in Alchimia, pur essendo educativo, è sempre abusato, per tirar la copertuccia da qualche parte che faccia comodo a qualche intentus. Si tratta di un piacevolissimo gioco intellettuale, ma è declinato – purtroppo – come una sorta di magnete antropocentrico, che è di fatto sempre fasullo. Oltre al fatto che l’uomo non è affatto al centro di un qualsivoglia Universo (non potrebbe mai esserlo, anche perché un Universo non possiede né potrebbe mai possedere un centrum), si vuol sempre trascurare od omettere che un Symbolon ha sempre – e per forza, altrimenti NON sarebbe in grado si sussistere, nemmeno intellettualmente – da un Dyiabolon. Il nostro Universo ha forma Duale, ma tendiamo a scordarlo; forse perché è scomodo comprendere che Lux è nascosta in Tenebras. Figurarsi accettarlo!
Dimenticavo: il Symbolon era in origine un oggetto fisico, usato per riconoscersi: si spezzava, per esempio, un sigillo, una tazza, una pietra – in due parti: una a me, ed una a te. Poi la vita ci portava in giro per il mondo. Quando ci si reincontrava, magari l’aspetto fisico dei due era mutato, oppure occorreva dissipare qualche dubbio di appartenenza, di origine: si estraevano i due pezzi (i Symbola) e se combaciavano alla perfezione … ci si abbracciava; altrimenti … qualcuno mentiva! Semplice, no?
Potrebbe dunque mai il disegnino del Vitriol o quel che volete … essere un Symbolon cui dar credito d’abbraccio? Poi: … ma a che cosa diamine potrebbe mai servire un Symbolon in un laboratorio alchemico, che è un locus la cui padrona è Madre Natura?