Archive for Leale Servitore

Bourges – Hôtel Lallemant, Caissons – Serie IV

Posted in Alchemy, Alchemy Texts, Alchimia, Alchimie, Fulcanelli, Various Stuff with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on Tuesday, January 11, 2022 by Captain NEMO

Passato il periodo delle Feste, continuiamo l’esame del Plafond dell’Oratoire dell’Hôtel Lallemant con la quarta serie di Cassoni:

Cassone 10 – Un Angioletto fa pipì nello zoccolo

Fulcanelli commenta questo Cassone: ‘Voici, – quel singulier motif pour une chapelle – un jeune enfant urinant à plein jet dans son sabot.’.

Ecco, – che motivo singolare per una cappella – un bambinello che urina a tutta forza in uno zoccolo.’.

A ben guardare, si tratta di una bambinella, alata, che apre la parte inferiore della sua tunica; la qual bimbetta – con una mira che ha del perfetto! – dirige il suo getto di pipì all’interno di uno zoccolo, di legno. La scenetta descrive un jeu d’enfants: di notte – la bimba, oltre la tunichetta da letto, indossa anche la cuffietta per dormire – l’inarrestabile desiderio fisico di liberarsi viene soddisfatto senza indugio: invece di recarsi verso un bagno, o usare il classico vasino da notte, l’angioletta trova uno zoccolo e lo usa per far pipì: non è un dispetto, quanto piuttosto un gesto da monella, … che sa di non esser vista!

… e la pipì pare davvero tanta, visto la cura con cui l’artista ha scolpito il getto, quasi un torchon, ma dritto dritto, per esprimere la forza con cui la piccola monella, in piedi, soddisfa il proprio istinto primario: liberarsi. … tale è la forza, che pare bagnarsi un po’ la gamba destra.

Canseliet, parlando dell’altrettanto famosa Fontaine Indécente (in Deux Logis Alchimiques), si ricollega a questo Cassone dell’Hôtel Lallemant:

Pourvue de ses deux ailes, comme il se doit, l’enfant céleste ne s’en tient pas moins campée sur ses deux jambes, afin d’ouvrir, tel un rideau, le vêtement qui la recouvre. Ainsi dirige-t-elle, dans un sabot de bois, habilement, malgré son attitude, à la fois verticale et difficultueuse, le jet oblique et roide de son virginal pipi.’.

‘Provvista di due ali, come si conviene, l’infante celeste sta comunque ben piantata sulle gambe in modo da aprire, come un sipario, la veste che la ricopre. Dirige così abilmente – malgrado la sua posizione, a sua volta verticale e difficoltosa – in uno zoccolo di legno, il getto obliquo e teso della sua pipì verginale.’.

Un esame più approfondito di questo Cassone – magnifico per la sua sfrontatezza, quanto, giustamente, illogico e irriverente in una Chapelle – ci porterebbe molto lontano (ne ho a suo tempo trattato, qui), e quindi mi limiterò a sottolineare alcuni spunti di riflessione: si tratta di una fase primaria della Grand Œuvre, relativa ad un Solve molto peculiare; tra una materia ricevente, usualmente vile e nerastra (raffigurata in genere con un Sabot o con un Chapeau (…toh!)), cui viene congiunta un’aqua. Quest’aqua è ovviamente di natura mercuriale, e ricorda tanto quella del fanciullo-che-fa-pipì-da-una-nuvoletta (nella famosissima Tavola dello Speculum Veritatis), ma – all’uopo – necessita di un’accorta (cioè, … avveduta!) correzione, per così dire; deve essere acuita, aguzzata.

Con che cosa? Tutti conoscono la risposta, talmente è diffusa nei buoni testi d’Alchimia: naturalmente, con il Sal Armoniac, no? Come avevo scritto, Paolo ci era venuto in soccorso (si parlava allora della immagine celeberrima della Cabala Mineralis di Simeon Ben Cantara; … ah, les beaux temps d’antan!), nel suo stile schietto e sempre sorridente:

… Le tre reiterazioni indicate dai tre fiori celesti ci fanno ottenere questo mercurio, sale di pietra o sale armoniaco, che viene irrorato dalla rugiada e aguzzato dall’urina del fanciullo, il nostro ariete celeste. Otteniamo così l’acqua viva aguzzata e poi la stella dei saggi. Le aquile ci ricordano che questo in fondo è un processo di sublimazione…

… …Mi sono reso conto che non ho detto … perché “l’urina”. Mio Dio, è semplice, come al solito. É il nostro fuoco filosofico che libera il mercurio comune, il dissolvente, e gli si unisce per formare con lui l’acqua viva, che ne è appunto aguzzata (o acuita se preferite). Tra l’altro posso confermare che l’urina dell’ariete ha un fortissimo odore di ammoniaca, cioè di urina putrefatta.

I nomi usati dai maestri hanno sempre un senso molto banale e operativo.

Quanto al Sabot, Fulcanelli ha scritto ovunque che il suo senso alchemico è legato a quello della fava o del bambolotto bagnante, la Galette, alludendo ad un contenuto, evidentemente nascosto, … nel sabot:

…Notre galette est signée comme la matière elle-même et contient dans sa pâte le petit enfant populairement dénommé baigneur. C’est l’Enfant-Jésus porté par Offerus, le serviteur ou le voyageur; c’est l’or dans son bain, le baigneur ; c’est la fève, le sabot, le berceau ou la croix d’honneur ”.

La citazione di Fulcanelli – dove non occorre scomodare Grasset d’Orcet per ricostruire un pezzo del Puzzle alchemico al quale l’angioletta monella, colta sul fatto!, allude – è tratta da Il Mistero delle Cattedrali; consiglio vivamente il lettore, neofita o esperto che sia, di re-immergersi nello studio calmo, ma molto calmo, del passo su Offerus, la sua famosa Ceinture e la Galette des Rois (pp. 275-8, Edizione Italiana; chi può, lo legga in francese, perché … suona bene!). Mentre ricordo che il termine popolare Sabot (Çabot) proviene da Savate (per Ciabatta, femminile) e Bot (per Scarpa, … ma maschile), non posso evitare di sorridere allegramente di fronte a quello che Grasset d’Orcet, però, avrebbe saputo raccontare su quel ‘croix d’honneur’!

Cassone 9 – La Pollastra ed il Corno dell’Abbondanza

Fulcanelli commenta questo Cassone: ‘Ici, c’est la corne d’Amalthée, toute débordante de fleurs et de fruits, qui sert de perchoir à la géline ou perdrix, l’oiseau en question étant peu caractérisé; mais, que l’emblème soit la poule noire ou la perdrix rouge, cela ne change rien à la signification hermétique qu’il exprime.’.

Qui, [ecco] il corno d’Amaltea, tutto traboccante di fiori e di frutti, che serve da trespolo alla gallina o pernice, dato che l’uccello in questione non è ben caratterizzato; ma, che l’emblema sia la pollastra nera o la pernice rossa, ciò non cambia in nulla il significato ermetico che esso esprime.’.

La poule è la pollastra (chissà perché Fulcanelli la vede come nera), mentre la géline è la nostra gallina, che prende questo nome, generalmente, quando si accinge a fare uova; la gallina ovaiola, si sa, fa … le uova d’oro! Per contro, la Pernicerossa -, che in francese è la perdrix, deve il suo nome al latino perdix, che a sua volta viene dal greco pèrdix (πέρδιξ); sembra che così sia stata chiamata anticamente perché quando si alza in volo, dopo aver tentato di piedinare nascondendosi dove può, … ‘emette peti’ (dal lemma πέρδομαι), tanto che i greci la chiamavano anche ‘kakkabis’.

Ciò detto, di Amaltea (Ἀμάλθεια) sappiamo quasi tutto; era la tenera capretta con il cui latte le due Ninfe dei Frassini (Adrastea ed Io, figlie di Melisseo) alimentavano il piccolo Zeus, che era stato loro affidato da Rea per nasconderlo alla fama divorante di Cronos; il piccolo era nutrito anche con ambrosia, miele e nettare, ma provenienti da altri animali. Una volta cresciuto, Zeus spodestò il terribile padre e per ringraziare la capretta Amaltea creò la costellazione dell’Auriga, la cui stella più brillante è Capella (la ‘capretta’, la terza stella più brillante del cielo Boreale); ma si racconta anche – le fonti sono varie, anche perché ci si riferisce a storie pre-Olimpiche – che il bimbetto Zeus, mentre nel giocare andava cavalcando la sua tenera ed affezionata capretta, le spezzò un corno; le due Ninfe curarono prontamente Amaltea, e donarono il corno, riempito di frutti, al piccolo Zeus; una volta divenuto il capo di tutti gli Dei dell’Olimpo, Zeus restituì il corno alle due Ninfe gentili, ma stavolta era magico, perché per quanto se ne mangiassero i frutti e si cogliessero i doni in esso racchiusi, subito se ne riempiva di nuovo: era nato il Corno dell’Abbondanza (da Cornu Copiæ’). Sempre il Mito, ma in un’altra versione, racconta che Zeus volle anche creare la costellazione del Capricorno. In somma … melius abundare quam deficere, no?

Fulcanelli si riferisce a questo Corno d’Amaltea nell’esaminare un Medaglione di Notre Dame de Paris, intitolato ‘L’Origine e risultato della Pietra’, raffigurato alla Tavola XIX ne Il Mistero delle Cattedrali:

Nel secondo medaglione l’Iniziatore ci presenta con una mano uno specchio, mentre con l’altra alza il corno d’Amaltea; al suo fianco si vede l’Albero della Vita. Lo specchio simboleggia l’inizio dell’opera, l’Albero della Vita ne indica il fine e il corno dell’abbondanza il risultato.”.

Lascio al lettore l’onere di scoprire il senso che lega la gallina nera (o la pernice rossa, che va peteggiando quando s’alza in volo) che beccheggia nel corno di Amaltea, magari riflettendo sul fatto che Zeus viene alimentato dalla sua tenera nutrice con il suo latte, e che l’abbondanza eventuale cui si aspira deriva da una chose … certo più solida&compatta del latte nutriente, il quale, ohibò, suona come Gala!…

Cassone 12 – L’Angioletto con la ghirlanda e il sonaglio

Fulcanelli non commenta questo Cassone.

La raffigurazione, rispetto a quella di altri Cassoni, è davvero rovinata; vediamo un Angelot alato il cui volto ha le fattezze un po’ più adulte, con i capelli come pettinati all’indietro e lo sguardo rivolto verso l’alto; sulle spalle porta una ghirlanda, che sul suo lato sinistro è fermata con un nastro e termina con una nappa a forma di fiore a campanella; dal suo lato destro, purtroppo danneggiato, pende un filo che forma un anello attorno al pollice dell’Angioletto e va a terminare (anche qui al rilievo manca un pezzo) in un sonaglio.

Il mio amico ijnuhbes vi vede una raffigurazione del dolore, del contrasto tra le tristezze della vita terrena e le aspettative della vita post-mortem: quest’interpretazione, certo comprensibile, è sostenuta dal fatto che la ghirlanda sarebbe una corona funeraria (come le due corone, colorate di smalto verde, che figurano, lo vedremo, affisse sulle due colonne centrali dello studiolo, oratorio, o cappella che dir si voglia); e siccome l’Angioletto sembra avere una sorta di pietra che esce da una fenditura tra le gambe, quella sarebbe un gigantesco calcolo della vescica, che provocherebbe enormi dolori …; così, il tono generale, secondo quell’interpretazione sarebbe una rappresentazione della consapevolezza del dolore riservato all’uomo nella sua vita terrena.

Ora, la ghirlanda non ha certo una forma circolare (come quella di una qualsiasi corona funeraria) e quella fenditura, per quel che appare, mi pare più dovuta alla caduta della parte dell’impasto che raffigurava l’inguine, probabilmente dovuta al tempo o ad un’altra ragione; quella pietra-calcolo, peraltro troppo grande per risultare credibile, potrebbe invece essere una sorta di supporto inserito al momento della creazione del rigonfiamento dell’inguine da parte dello scultore, il cui scopo era quello di renderne visibile solo una piccola parte, per rappresentare i genitali (maschili o femminili). Se si osservano gli altri Angelots (su questo plafond, come anche quelli dipinti nelle Heures di Etienne Lallemant), l’ipotesi di un danno che ha messo in luce il trucco del supporto nascosto sotto l’inguine, dopo la caduta o il danneggiaento dell’impasto che lo rivestiva … potrebbe reggere.

Sia come sia, l’inserimento di una ghirlanda (gerbe) chiusa da sonagli da entrambe le parti, e l’espressione pacifica dell’Angioletto, paiono trasmettere serenità, persino sonoramente. Se poi questa serenitas sia da attribuire al contenuto alchemico dei due precedenti Cassoni, ciò è naturalmente materia opinabile, ma non impossibile. L’Angelot cammina con lo sguardo rivolto al Cielo, e gioca con i due sonagli della ghirlanda: allegria e speranza.

Per concludere questa sessione, credo di poter dire che il committente (i committenti?) abbia/no forse voluto far rappresentare un Jeu d’Enfants (molto conosciuto in Alchimia, e molto ben congegnato, peraltro) che si colloca in un certo inizio dell’Œuvre, affiancato da un’altra garbata allegoria legata ad una fase intermedia, ma importante ed esiziale, e conclusa – in questa terna – da una sonora pacificazione, celeste.

 À bientôt, mes Dames et mes Sires …

Irène Hillel-Erlanger au Kaléidoscope…

Posted in Alchemy, Alchemy Texts, Alchimia, Alchimie, Fulcanelli with tags , , , , , , , , , , , , , , , , on Tuesday, May 18, 2010 by Captain NEMO

“Au centre de la Palmeraie, une Source jaillissante dans une Vasque de marbre blanc.
Intimes de toute marque puisent l’Eau, la boivent dans de belles petites coupes.
Comme on fait aux Stations thermales renommées.
Grace circule parmi eux (tunique de gaze peinte, souple et splendide. Toujours son voile.)
Sur la margelle de la Vasque, on lit gravé en lettres profondes

LA  SALUTAIRE

Seguendo le tracce dei vari personaggi legati al nome di Fulcanelli, in quei salotti parigini stravaganti e d’haut-bord, come quello celebre dei De Lesseps, se ne ricava l’impressione di una straordinaria confusione di idee, progetti, speranze e sogni, inserita – o forse preparata ad arte, secondo le misteriose regole delle cose non di questo mondo – in una sorta di vero e proprio crogiolo: i personaggi si fondono l’uno con l’altro, si incontrano, si scambiano, lottano, si riappacificano, muoiono e rinascono. Di certo, a leggere nelle pieghe di tutte le strane storie dei vari attori all’opera su quel palcoscenico di Parigi, chissà perché quasi ‘scelta’ dal caso per ospitare la cottura di tanti nuovi fermenti europei agli inizi del ‘900, sembra di assistere ad un teatro delle ombre, come quello in voga allo Chat Noir, di cui bisogna cercare di cogliere il significato nascosto, in cui – proprio come in un’operazione alchemica – le scorie del vecchio ciarpame occultista cadono a lato, via via bruciate e consumate, lasciando emergere personaggi singolari, da studiare come corpi nuovi, semplici e mirabili, evanescenti, come è la natura del mercurio alchemico: il Servus Fugitivus appare e scompare in un ‘clin d’oeil‘, lasciando solo la traccia, un profumo intenso, un bagliore, un colore particolare, e l’unica percezione di una presenza fugace, come un transito inspiegabile sul palcoscenico.

Se quello di Fulcanelli è il nome del certamente più noto, forse il più grande, di questi attori appartenenti per destino ad un altro teatro, più antico e ben più reale del nostro, ve ne sono altri che – seppur collateralmente – fanno da contrappunto mirabile al corpus principale del Mysterium in rappresentazione: è il caso di Madame Irène Hillel-Erlanger, sorta di meteora sconosciuta che appare d’improvviso e che sbiadisce con identica rapidità, bruciando la propria coda materiale nel Cielo dei cercatori dell’Arte.

La scarna biografia disponibile di questa donna è ben conosciuta e consolidata; e probabilmente, proprio per questo, molti pezzi mancano all’appello, celati dal suo carattere discreto e – più verosimilmente – dalle sue scelte intime, segrete, mai pubbliche.

Irène Hillel-Erlanger

Irène Hillel-Erlanger

Berthe Rebecca Alice Irène Hillel-Manoach appare su Terra alle 8.30 del mattino del 30 Giugno 1878, a Parigi, in una famiglia le cui origini sono decisamente peculiari: De Camondo è il nome di una solida e granitica stirpe di banchieri trasferitasi in Francia nel 1869, dopo aver reso i loro preziosi servigi finanziari alla corte dell’Impero Ottomano. Rebecca De Camondo, la nonna di Iréne, sposerà un altro banchiere, Michel Halfon, e sua madre Regina Halfon si unirà ad Isaac Hillel-Manoach. Il sangue ebreo sefardita scorre nelle vene di Irène per discendenza femminile: l’origine della famiglia Kamondo risale alla Spagna, dalla quale venne espulsa dalla cattolicissima Isabella nel 1492; i Camondo arrivano nella Repubblica della Serenissima e – probabilmente seguendo gli ambiziosi interessi economici di Venezia – approdano a Costantinopoli. Da un semplice negozietto di cambia valute e prestiti, nel 1758, la famiglia arriva a consolidare le proprie fortune grazie ai grandi servizi, finanziari e filantropici, resi agli Imperatori Ottomani: Abraham Salomon, alla morte del fratello Isaac nel 1832, diverrà il vero patriarca della ricchissima famiglia: i “Rotschild d’Oriente”.

Abraham Solomon Camondo

Abraham Solomon Camondo

Il titolo comitale viene conferito da Vittorio Emanuele II di Savoia nel 1867, grazie al generoso supporto finanziario dei De Camondo per la IIa Guerra d’Indipendenza. A Parigi, Irène risiede al 60 di Rue Monceau, e cresce sotto le cure di sua madre, rimasta vedova nel 1881 all’età di vent’otto anni, e delle sue due sorelle: le tre dame si incontrano ogni giorno, rigorosamente vestite di nero e – secondo un costume tipico di quelle famiglie – conversano tra loro nello spagnolo del XV° secolo!
Irène ha un innato talento di scrittrice: pubblica, con lo pseudonimo maschile di Claude Lorrey, diverse raccolte di poesie; sempre a Parigi, nel 1902, sposa Camille Erlanger, compositore d’operetta. Nasce nel 1903 l’unico figlio, Philippe Erlanger, che diventerà uno storico affermato. Poi, nel 1912 il divorzio: una starlette parigina si innamora di Camille e si reca a casa di Irène per proporre – addirittura – un ménage-a-trois: Irène la mette alla porta e, con lei, chiude fuori dalla sua vita ogni varco alle illusioni; si getta, allora, nella passione letteraria, entra in contatto con i vari movimenti avanguardisti dell’epoca, dei quali Parigi è divenuta la culla; stringe un’affettuosa amicizia con Germaine Dulac, regista del nascente Cinema muto francese, e nel 1916 fonda con lei la D.H, una casa di produzione di cui diverrà la sceneggiatrice. Il suo salotto diviene meta di molti nomi della cultura, dello spettacolo e della politica. Il suo talento viene riconosciuto ed i severi critici dell’avanguardia le aprono piccoli spazi su libri e riviste letterarie, in cui traspare, neanche troppo mascherato, il germe della sua personale, segreta, sconosciuta ricerca di ‘profondeur‘. Fino ad arrivare al suo piccolo capolavoro, misterioso; nel 1919 pubblica per George Crés un libro a dir poco sorprendente: Voyages en Kaléidoscope.

Voyages en Kaléidoscope - 1919

Voyages en Kaléidoscope - 1919

Vi si narra delle disavventure di Joel Joze, inventore maldestro ma geniale di uno strano apparecchio capace di captare le onde magnetiche delle persone e di mostrare, su uno schermo di tipo ‘cinematografico’, la vera natura delle cose che le animano. L’invenzione funziona ed ammalia Parigi: le serate si moltiplicano, grazie al supporto della Contessa Vera, artista di rango e di grido, animatrice delle migliori soirées parigine. L’animo di Joze è dilaniato dalla lotta tra l’infatuzione per la sensuale e spietata Vera, étoile della danza parigina, e l’amore per Grace, delicata e discreta, in cui riconosce, senza sapere veramente perché, il mistero della ‘vera’ verità. E’ la storia, in toni che sono stati definiti dadaisti e surrealisti, del conflitto intimo e materiale di un cercatore-inventore diviso tra realtà e verità; ovviamente la scelta di Joze per Vera lo porterà al disastro, alla perdita di sé, fino allo scontro tra le due nature complementari: alla fine, Grace si recherà a casa di Vera (che abita in Avenue Montaigne) per affrontarla e recuperare il povero Joel, ormai plagiato da Vera; nell’istante in cui Grace solleverà l’eterno velo orientale che sempre le ha nascosto il viso,  scoprendo lo sfolgorante diamante incastonato nella fronte, lasciatole dal ‘padre‘, Joel scopre che le due donne sono sorelle; dal loro confronto, da quel diamante, si scatenerà un’esplosione terribile, che devasterà Parigi. Vera tornerà a fare l’eterna danzatrice, mentre Joel Joze – finalmente libero – meglio: liberato –  ritornerà da Grace, abbandonando ogni velleità di potere, denaro e successo mondano. Tutto questo ci viene narrato, come una voce fuori campo dal segretario di Joel Joze, Gilly, il ‘Leale Servitore‘, come la stessa Irène spiega nella presentazione dei personaggi della sua storia.

La lettura del Voyages en Kaléidoscope è meravigliosa, fresca, scattante, secca, immaginifica, sorprendente: lo stile di Irène è ormai maturo e tutti – naturalmente – parleranno di questo libretto come di un’opera letteraria dadaista. Ma la leggenda che lo attornia, così come ce la presentarono Fulcanelli e Canseliet, ha contribuito a far diventare l’opera di Irène un ‘classico’ della letteratura alchemica. Questa leggenda vuole che all’indomani della pubblicazione, un ‘essere vestito di nero‘ o un ‘gruppo di personaggi nell’ombra‘ facesse sparire nel fuoco ogni copia pubblicata, a causa dei troppi segreti alchemici svelati. Solo le copie donate da Irène a pochi amici sopravvissero all’operazione misteriosa. Non paga di questo, la leggenda vuole che Irène morisse nel 1920 a seguito di un avvelenamento da ostriche [1], proprio in occasione del banchetto di presentazione ufficiale del libro! La madre di Irène, affranta per il dolore, ne organizza le esequie e la tumulazione nel cimitero di famiglia a Montmartre.

Jean Laplace, che ha curato nel 1977 la prima riedizione di Voyages en Kaléidoscope esprime tutta la sua circospezione su questa leggenda: a suo dire, non vi sono grandi rivelazioni operative nel libro, ferma restando la sua meraviglia nel ritrovare, lungo tutto il corso della narrazione, mille riferimenti all’Alchimia; Laplace sostiene che l’improvvisa quanto misteriosa operazione di censura di questo straordinario libro potesse essere dovuta al padre, banchiere [2]. In effetti, uno dei capitoli più violenti e dissacratori è proprio quello riservato al sistema bancario, intitolato da Irène ‘La Piovre‘. Ma, giustamente, lo stesso Laplace si interroga: può un padre, seppur furibondo, ordinare persino la morte della propria figlia per salvaguardare il prestigio del sistema bancario?…

Certo, Voyages en Kaléidoscope trasuda di riferimenti che possono (debbono?) essere letti in chiave alchemica: il passo più famoso, il più citato, il più evidentemente allusivo, ed uno dei più emozionanti, è probabilmente questo:

“Une Palmeraie!
En plein Paris…
qui s’en douterai?
Délices!
Palmiers Citronniers Orangers
gazons velours-émeraude
allées sablées de sable d’or
brillants oiseaux-des-Iles
et, dans des bosquets noirs-cyprés,
des rossignols
avec des chants rafraichissants parmi d’exquises brise
Java Gabés Jardine des Hespérides
n’ont rien d’aussi délicieux
Une lumière enchanteresse – pas artificielle mais surnaturelle –
éclaire intensément et n’éblouit point.

Une Palmeraie! Comme au Désert.
En plein Paris!
Et c’est le Vestibule de Grace

Peu d’Amis visitent la Maison entière haute et vaste
derrière sa façade ancienne. Il faut une permission spéciale,
rarement accordée. On raconte qu’après l’Oasis
où nous venons d’entrer, il y a – passé verrière cobalt
après les palmes – un escalier de pur cristal, poli, glissant.
Il mène à une Rotonde très magnifique – parois et
pavement de lazulite – dont la coupole est taillèe dans
un seul Saphir.
Là 3 rideaux superposés. Hauts. Trainant sur les dalles:
Rideau de Bure [3]
Rideau d’Argent (de toile d’argent)
Ridea d’Or-fin (long fils d’or-fin)
et
la Salle du Trésor
– dans des buissons suaves d’immarcescibles Roses humides de Rosée
quels Diamants et quelles Perles! –

des fervents ont gravi les degrés de cristal,
des invités de bon ligneage ont soulevé le
Rideau de Bure
certains, de haut parage, ont entr’ouvert

Rideau d’Argent,
Rideau d’Or est trés secret
et, dans la Salle di Trésor, seuls ont pénétré des
Simples.
A ceux-là, Grace parle visage découvert
Devant les autres, quoi qui’ils implorent, toujours son
voile mystérieux.
Pour gagner le Trésor, les Simples sont dispensés de
poser leur pieds sur les Marches:
Une aspiration, qui les élève, les transporte soudainement
dans la Salle Sublime.
Grace leur fait part de ses Arcanes et leur révèle le
Nom de son Père.”

Se lo si legge con la dolcezza con cui senza dubbio Irène lo ha prima sentito e poi scritto, se questo piccolo magico passo lo si lascia ‘suonare’ nella lingua originale, se ci si lascia trasportare dal cuore, a mente assolutamente spenta, qualcosa emerge dal profondo dell’animo di chi legge.
Non è facile descrivere un’emozione, e forse per questo un alchimista apprezza ancor più queste parole; Iréne parla di cose primeve, che non appartengono alla vita mondana della Ville Lumiére, che non appartengono al mondo comune, ma lo fa attraverso un incanto verbale ed emozionale che allude, preciso, alla trascendenza – ben nascosta, sempre – dell’Alchimia più pura.
C’è una cesura, netta, secca, in francese si direbbe ‘cassante‘, tra il mondo volgare in cui Joel Joze vive le sue mirabolanti avventure parigine, e questa improvvisa apparizione della ‘Palmeraie’. Il Mistero, il Meraviglioso, sono il centro di questa visione della maison di Grace, la Grazia. Si avverte tutta la malinconia, il distacco doloroso ma in qualche modo ormai assimilato, sereno, compreso, e pacificato, dal mondo del terribile quotidiano così mirabilmente posato sulla superficie del racconto. Da quale porto nascosto dell’anima di Irène nascevano queste intuizioni dal linguaggio così antico, pur poste secondo le regole della moda del tempo? Jacques Simonelli, che ha curato la seconda riedizione del libro nel 1996, ne indica l’origine nel dolore causato dal tradimento da parte del marito, il dolore d’amore, la delusione di un sogno infranto. Possibile, certo. Ma…e se fosse altro? E se, magari partendo da quell’evento senza dubbio doloroso Irène avesse trovato il coraggio di andare più a fondo? Dentro sé stessa? Se avesse scoperto, per caso o per Grazia, il missing di un altro sentimento, dell’Amore infinito? Se avesse incontrato Alchimia?

Nei circoli ermetici si accenna sempre alla figura di Irène come quella di una silenziosa alchimista: dove e come potrebbe essere accaduto l’incontro? Forse – addirittura – a casa di Fulcanelli? E’ quanto sembra suggerire Isabelle Canseliet nel 1985 sulla rivista Tempête Chymique:

“Il se pourrait bien qu’Irène Hillel-Erlanger ait été reçue chez Fulcanelli. Raymond Roussel le fut bien, qui était de la même génération, du même milieu social et qui est mort d’une mort non moins mystérieuse que la sienne.

Il y a comme une parenté singulière entre ces deux patriciens lettrés, en exil au sein du Tout-Paris, et qui peut-être sans s’être jamais rencontrés, se trouvaient à l’unisson.”

E’ una possibilità, visto che i De Lesseps abitavano in Avenue Montaigne, dove Irène pone la residenza della sua mondanissima Vera. Ma certo nei salotti della Parigi di quei tempi si potevano incontrare un centinaio di personaggi che facevano dell’esoterismo il loro passe-partout per accedere ai luoghi nascosti della Sapienza antica, alla ricerca di una qualche radice pura nell’intricato bosco del mistero. Forse Irène, nell’inevitabile fritto-misto dei tanti movimenti, sette, ordini, chiese e logge d’ogni tipo, aveva avuto la fortuna di incontrare qualche altro raro portatore di un messaggio meno adulterato. Ma in ogni caso, se si vuole prestar fede alla leggenda di Irène alchimista, si deve presupporre che questa donna abbia allestito un suo piccolo laboratorio e che abbia dunque potuto lavorare alla Grand Oeuvre; probabilmente, proprio come un’altra alchimista, Louise Barbe[4], prima moglie del bizzarro Dottor Voronoff, che pare esser deceduta nel suo laboratorio (a causa di un’esplosione, o per aver assunto un Elisir troppo tossico). Nel caso di Irène, nulla si sa sull’esito dei suoi lavori alchemici; comunque stiano le cose, Voyages en Kaléidoscope resta una piccola perla indicatrice, ed è significativa l’attenzione per questo libro da parte di Fulcanelli prima e di Canseliet poi. Quest’ultimo ha lasciato un commento sibillino:

“La brusque disparition de l’ouvrage parut accréditer l’histoire, du reste colportée sans preuves, du décès mystérieux de son auteur.
Nous n’oserions rien avancer dans le sens de cette hypothèse, quoique à cette époque très exactement, nous nous trouvions avec le Maître, chez Paul et Jacques de Lesseps, avenue Montaigne.”

Questa passo, tratto dalla seconda edizione di Deux Logis Alchimiques, non corrisponde con quello della prima edizione, in cui la frase che segue quell’enigmatico ‘quoique’ (‘sebbene’) non compare. E se questa aggiunta posteriore suona strana, è certo singolare che il buon Maitre de Savignies dedichi quasi cinque pagine del suo libro all’opera di Irène.

André Savoret (1898-1982), emerito esoterista, poeta e studioso d’Alchimia, amico di Canseliet e Lebesgue, era certo che Irène fosse stata un’alchimista:

“Porrò questa volta la mia modesta pietra sull’edificio della poesia ermetica, evocando un’alchimista autentica, a cui ritengo di poter attribuire il titolo di Adepta, pressoché contemporanea e le cui opere sono quasi del tutto introvabili. Mi riferisco a Irène Hillel-Erlanger”

E ancora:

“Libro singolare, la cui natura barocca dissimula o protegge una decina di pagine preziose, che costituiscono la testimonianza tradizionalmente lasciata da ogni adepto all’atto della sua metamorfosi, sia secondo le sorti comuni ai mortali, sia – e ne è questo il caso – in un mutamento di tutt’altra natura…”

Qualche anno dopo, molti anni dopo la scomparsa di Irène, Savoret arrivò al punto di fare un’altra ben curiosa confidenza ad un suo amico libraio, mostrandogli un libricino di poesie (dell’Adepta) edito sotto un nuovo nome:

“…détrompez-vous cher ami, Eliane Herlanger se porte comme une charme, tout comme vous et moi !”

Sia come sia, Voyages en Kaléidoscope offre al lettore anche due disegni su cui riflettere, frutto del lavoro dell’olandese  Kees (Cornelis) van Dongen (1877-1968), artista ‘fauviste’ di quei tempi parigini;

Kees van Dongen

Kees van Dongen

la prima è quella della celeberrima copertina, la cui composizione è davvero particolare: la triplicità dei simboli del fuoco e dell’acqua, la scomposizione in qualche modo evocatrice del titolo, i tre cerchi, e quell’accenno evidentemente salino a Gilly, il Leale Servitore. L’altra è il famoso ‘termometro’, che gli appassionati della cabala fonetica vogliono leggere come ‘thermo-Maitre’, il ‘termo-Maestro’.

Le Thermo-Maitre

Le Thermo-Maitre

Sempre secondo le interpretazioni in chiave alchemica dell’opera di Irène, questa illustrazione indicherebbe il ‘segreto delle temperature’:

E’ ben strano questo termometro, nella apparente normalità delle notazioni e delle gradazioni, di cui Irène dice:

“Il ne s’agit pas ici d’approfondir. Mais de grimper.”

Afferrare, non approfondire.

In conclusione di questo lungo Post, una sorta di piccolo omaggio reso ad una donna che appare discreta ma non per questo meno straordinaria, protagonista suo malgrado di una moderna leggenda alchemica, credo sia giusto lasciare le cose come sono: se Irène è davvero riuscita a varcare la Porta Stretta con gioia, sapienza ed abbandono, a noi non resta che inchinarci e continuare a camminare. Senza alcuna pretesa di poter scoprire segreti astrusi, ma con il ricordo cristallino di queste sue belle parole, che potrebbero costituire la speranza nascosta di ogni innamorato della Gran Dama:

“L’écorce sans éclat de la grenade close
Recèle un pur trésor lucide et savoureux
Le miel, rayon brillant, parmi l’ombre se pose;
Et dans l’obscurité, bien souvent tu reposes,
Eau limpide et glacée, cristal délicieux.

L’ivoire et le carmin des roses qui se fanent
Embaument d’un parfum plus doux la paix du soir;
Et, sereine beauté, loin du regard profane,
Rëve de marbre lisse et de splendeur diaphane,
De la blanche statue au fond du temple noir.

Sous le feu du soleil, à la lueur de l’ourse,
Le pélerin gravit des sentiers sourcilleux.
Mais, parvenu enfin au terme de sa course,
En un jardin secret, il trouvera la source,
La grenade et la rose et le temple d’un dieu.”

(Poésies, Claude Lorrey – 1909)



[1] Secondo alcune biografie, anche Nicolàs Valois, uno dei tre alchimisti di Flers, morì nel corso di una cena sontuosa soffocato da un’ostrica.

[2] Laplace si è certamente sbagliato nell’attribuire al padre di Irène l’eventuale responsabilità della misteriosa operazione: Isaac Hillel-Manoach morì il 27 Marzo 1881. Ma certo altri membri di rango della famiglia De Camondo, banchieri, vivevano a Parigi alla data della pubblicazione di Voyages en Kalèidoscope, nel 1919.

[3] Questo il commento su ‘Bure’ da parte di Jean Laplace, nella riedizione del 1977 dei Voyages en Kaléidoscope: “La bure est une étoffe rousse qui symbolise ici le limon rouge issu de la calcination de la tete du corbeau. Ce limon sera recouvert par l’argent vif, qui pour une part le pénètre et l’imbibe, c’est le deuxieme rideau. Sur le mercur enfin, est superposé un troiséme rideau. Ce dernier, tel l’epervier, ancore utilisé sur nos cotes méditerranéennes, captera le poisson quittant les eaux profondes, et le scellera de ses mailles serrées et entrecroisées.”. In italiano il termine indica il colore tipico di un saio, fatto per l’appunto di un tessuto grossolano, in genere di colore bruno; talvolta viene tradotto con ‘bigello’, ad indicare un colore bigio, scuro. Pur riconoscendo ogni merito alla caritatevole indicazione di Laplace, credo debba essere pesata con estrema attenzione da ogni curioso cercatore: come si sa, quando un alchimista parla ‘in chiaro’, è certa l’oscurità. In ogni caso il riferimento al rosso-marrone scuro è confermata da Littré: “On rattache ce mot à un adjectif qui veut dire d’un brun foncé”; ed aggiunge che, a parer suo, la parola deriverebbe dal termine latino ‘bureus’, ‘burius’, rosso scuro. Questa particolare colorazione, legata al saio di lana monacale, ricorre – a titolo di esempio – nella Regola 27 dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio, che recita: “Nous demandons que toutes les robes des frères soient teintes d’une même couleur, à savoir blanche, noire ou de bure, et nous octroyons le manteau blanc à tous les frères chevaliers, en hiver comme en été. A nul autre, qui n’est pas chevalier du Christ, il n’est permis de porter le blanc manteau.

[4] Voyages en Kaléidoscope contiene una dedica da parte di Irène, che recita così: “Alla Grande Anima di L. B., offro devotamente queste mie pagine”. Tra le ipotesi fatte su chi potesse nascondersi dietro le lettere ‘L.B.’, qualcuno ha suggerito trattarsi di Louise Barbe.