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“La Bugia” del Marchese Palombara … 3

Posted in Alchemy with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on Sunday, November 5, 2023 by Captain NEMO

Continuiamo l’esame della Parabola del buon Marchese.

Lieto per vedere che la mia operazione con l’aiuto di Dio camminava di bene in meglio, mi venne pensiero di prendere altre vie per pascere l’animo d’altre vedute, per sollevare la mente affaticata nei studi.”.

Questo innocente ‘cappellino’ di Palombara, dovrebbe/potrebbe avvisare lo studente studioso: ‘altre vie’, dice.

Ciò detto, il nostro lascia le colline e si reca verso il mare ‘con la sua vastità ed apertura dell’aria’; raggiunge uno scoglio sulla riva: ed ecco che dalle onde vede uscire una ‘locusta’; dall’incisione che accompagna questa parte del testo si vede bene che si tratta di un granchio,  ‘tutta affamata e presciolosa, mostrando un’interna passione e melanconia nell’animo, con cortese inchino mi salutò ed aperta una piccola scarsella che le pendeva dal fianco cava da quella una piccola lettera o viglietto e me lo consegna.’.

Sul bigliettino si legge: “PIX ALBA AMARA LUMINIS UMI”, che è evidentemente un acrostico di ‘Maximilianus Palombara’; più operativamente, il buon Marchese sostiene: “… additandomi brevemente con la materia tutta l’operazione, mentre effettivamente tutto il principio della seconda operazione, che è il fine della prima, non è altro in effetto che una pece bianca ed amara del lume della terra.”; leggere bene, meditare con calma … e stare accuorti, eh? Suggerisco di notare che si tratta del Lumen e non proprio della Lux.

Conscio di aver tirato un sassetto in piccionaia, il buon Marchese alza la posta: “Amara, dico, perché ancora non è perfetta né affatto concotta o matura, essendo un estratto o quinta essenza o splendore cavato dalla terra dei filosofi detta Saturno, o Latona o Sole non depurato che, giunto a questo segno, vien chiamato con il suo primo nome Giove.”. Naturalmente dice bene, e non mente … Anche se mi par di percepire un rapidissimo batter di palpebre, con l’inarcar del ciglio … c’è dell’altro, infatti.

Poscia osservo il sigillo di essa (i.e., della lettera/viglietto) che era una fiamma, benché voltata all’ingiù verso la terra, tanto conforme al suo naturale, tendeva verso il cielo.”. … Ah, però! Carina questa, no?

La missiva, una volta aperta, reca una firma “La sirena del Mar Negro”. Se è firma, essa è ferma, e dunque chiude … cosa? Aperte le danze in modo così perfettamente acconcio, sicuro di risvegliare l’attenzione persino del più distratto dei casuali lettori, Palombara riassume il testo del ‘viglietto’: siccome il Re che si cerca non riusciva a sopportare il gran caldo, una notte era sceso a bagnarsi e restò accidentalmente annegato; si trattava per il nostro di attendere che le onde lo portassero a galla, certo ‘estinto’, ma lacero e putrefatto. Il viglietto raccomandava al cercatore il ‘regio cadavere’ e che ‘se avesse saputo operare con i modi magici, gli sarebbe stato facile, pur morto, di riportarlo in vita.’. Così, il Marchese aspetta sullo scoglio, poi la superfice del mare cambia colore (!) e vede ‘avvicinarsi un cadavere … sformato dal suo essere, e quasi disfatto…’; il Marchese lo afferra per un braccio … ma si accorse subito ‘d’aver alzato dal mare un pezzo di sottil pelle priva di tutte l’ossa, di tutte l’interiora e carne.’. Il mare torna calmo e Palombara ripone la pelle in un guscio di testuggine (‘testudine marina’) trovata sulla spiaggia, si avvia a ritornare, ma il mare si agita di nuovo; ed emerge di nuovo il cadavere del Re, ma con il braccio di nuovo ricoperto di pelle; stupito, stende la mano e ne ritrae un altro pezzo di pelle, che mette assieme alla precedente; la scena e la raccolta si ripete altre due volte. Poi il cadavere non tornò più a galla. Mentre risale verso il luogo da dove era venuto, sempre portando con sé la testuggine piena di pelle raccolta, si accorge che stava arrivando un gruppetto di gente; per paura di venir accusato di aver ucciso il Re, il Marchese si nasconde tra le rovine nelle vicinanze: senza esser visto, capisce che si tratta di un gruppo di filosofastri che discettano della materia con cui comporre la Pietra.

Ed ecco che con grande stridore e strepito si apre a stento una porticina: ne esce ‘una vecchia donna di bello aspetto, ma carica d’anni infiniti, dalla quale ne uscivano alcuni raggi di sole, ed appoggiava l’antiche membra sopra di un bastone, nella cima del quale vi era una mezzaluna.’. La vecchia gli chiede che cosa stesse facendo lì, e Palombara le racconta di aver la pelle del Re con sé; la Natura – perché lei è Natura; chi altra poteva essere? – se ne rallegra molto e gli dice che era davvero fortunato; lui chiede se quella pelle fosse proprio di quel Re tanto cercato da tutti; risposta: ”Sappi che quella pelle, benché insanguinata e sozza, è la parte più nobile del Sole, e che fa  per il tuo mestiero e che insieme fa il tutto, né mi meraviglio che ciò ti apporti meraviglia, poiché questo è un Re a pochi del mondo noto, benché da tutti sia veduto, ed è forte, gagliardo, potente, che resiste al foco, al freddo e ad ogni intemperie più d’ogni altro, e ciò lo puoi da te medesimo argumentare dalla fatica che hai avuto in spogliarlo delle sue ossa, ancor che fosse dal mare putrefatto, che sebbene è morto risorgerà qual novella fenice se sarai prudente. Sì che sappi che sebbene il mare gli dié la morte con annegarlo, quello li dié prima la vita, poiché da quello nacque essendoli madre e genitrice, la quale, sebbene sa che deggia risorgere trionfante, con tuttociò come pietosa al parto dalle sue viscere non puol celare il suo dolore, dandone segno con oscurarsi e vestirsi di lutto tra i singulti e li pianti sì come averai veduto. Conserva dunque questa pelle, e serviti della sua madre, mentre quel medesimo mare che dopo la vita li dié la morte, è disposto di novo a porgergli miglior vita con eternarlo, e regolati con prudenza, pazienza, e secretezza.”. La vecchia se ne va, ed il Marchese se ne torna a casa, ‘carico della ricca e preziosa preda’.

Una favola cruda, certo, ma bella, no? Si direbbe un racconto classico, un’allegoria ritrovata decine di volte nei buoni testi d’Alchimia. Eppure, a ben leggere, si coglie tra le righe qualche piccolo particolare di un certo interesse; nulla di veramente rivoluzionario, ma che colui che si ritrovasse avanzato lungo il cammino operativo non faticherà a riconoscere;

L’immagine che emerge appare infatti quasi come un dagherrotipo, dai colori così sfumati, dolcemente sbiaditi, caratteristici, affascinante: come sempre, gran parte dei lettori vi troverà pane per i loro Simbolici dentini; ma è davvero ridicolo affermare che l’Alchimia – grazie a brani come questo – possa mai esser un’Arte ed una Pratica di natura simbolica, non credete?

La fase operativa riguarda Latona, naturalmente; e, più in generale, ciò che si chiama ‘purificazione’. Ma prima di ‘purificare’ occorre evidentemente prima disporre di quel corpo; poi, memori di quanto riportato nel passo di cui ho parlato in precedenza (qui), disporre del corpo che lo potrà purificare; infine, con una certa manualità, effettuare la ‘dealbatio’, lo sbiancamento di Latona. A proposito del brano precedente, invito ancora a studiarlo al meglio, riflettendo. Non poco; molto: melius abundare quam deficere, eh?

Quanto a Latona, Maier – citando il Clangor Buccinæ – recita: “È un corpo imperfetto composto da sole e luna”; ma, prosegue Maier, Latona – secondo Poeti e scrittori antichissimi – è madre del sole e della Luna, ovvero di Apollo & Diana, altri ne fanno la nutrice; Diana nasce per prima (Luna, e l’albedo, infatti appare per prima), e Diana sarà la levatrice di Apollo.

Per chi fosse proprio curioso, riporto il passo: “Dealbate ergo Latonem: idest, æs cum Mercurio, quia Latone est ex Sole & Luna compositum corpus imperfectū citrinum: quod cùm dealbaueris, & per diuturná decoctione ad pristinam citrinitatem perduxeris, habes iterū Latonem eodem modo ductibilé, & ad quantitatem tibi placitam: tunc intrasti per ostium, & habes artis principium.[1].

Come ha scritto il buon Marchese poco sopra (“… terra dei filosofi detta Saturno, o Latona o Sole non depurato che, giunto a questo segno, vien chiamato con il suo primo nome Giove”), qualcuno potrebbe cadere nel dubbio: nel Mito, Latona è la madre di Febo ed Artemide, il cui padre è Giove, la cui sposa è Era; insomma Giove, attratto dalla gran beltà di Latona, si congiunge con lei di nascosto dalla ovviamente gelosa Era (la quale farà inseguire Latona dal serpente Pitone, per ogni dove). Latona, fra l’altro, è una Titanide, figlia di Febe e Ceo, a loro volta figli di Urano e Gea; perché mai, dunque, Palombara allude al ‘primo nome Giove’? Mettendo per un attimo da parte la genealogia proposta nel Mito, Sir Isaac Newton potrebbe aiutarci un tantino: nel suo Index Chemicus, una sorta di gran taccuino in cui annotava gli appunti frutto dei suoi studi alchemici, alla voce Jupiter Philosophorum, scrive:

Jupiter Philosophorum, qui a juvando dictus est ac de quo tot fabulæ introductæ sunt, non est Jupiter vulgi sed subjectum philosophicum, ex quo omnis tinctura petenda est, materia philosophica quæ in Aquilæ forma Ganimedem in Cælum evexit, quæ in aurum mutata Danaæ in gremium decidit, quæ sub forma Cygni albi Lædam compressit, etc. Nisi enim ad volatum sit idonea aut ad lapsum suo pondere apta materia, non est Jovis nomine digna cum ne minimum juvare possit Artificem sed plurimum morari.”.

La facile traduzione del suo Latino seicentesco ci fa sorridere per l’acutezza e l’intuizione, ma è – soprattutto, credo – piuttosto interessante: il ‘Sole non depurato’ a questo punto delle operazioni prende – nell’opinione del Marchese – … il nome del focoso amante di Latona, cioè ‘Giove’ (o Jupiter Newtoniano che dir si voglia). Nomen est Omen, no?

Ora, relativamente all’evidente necessità delle ripetizioni della ‘raccolta’ di ciò che Palombara chiama ‘pelle’, ricordo quante e quante volte io ed il buon Fra’ Cercone ci siamo interrogati su questa famosa frase di Fulcanelli:

C’est cet esprit, répandu à la surface du globe, que l’artiste subtil et ingénieux doit capter au fur et à mesure de sa matérialisation.”.

Fulcanelli si riferisce a questo medaglione del Porche Central di Notre-Dame de Paris:

la cui didascalia recita: “I materiali necessari all’elaborazione del solvente.

Ecco il primo paragrafo del commento di Fulcanelli, nella traduzione di Paolo:

Il nono soggetto ci permette di penetrare più a fondo il segreto della fabbricazione del Dissolvente universale. Una donna indica – allegoricamente – i materiali necessari alla costruzione del vaso ermetico; tiene alta una tavoletta di legno che assomiglia ad una doga di botte, la cui essenza ci è rivelata dal ramo di quercia che adorna lo scudo. Ritroviamo qui la sorgente misteriosa scolpita sul contrafforte del portico, ma il gesto del nostro personaggio tradisce la spiritualità di questa sostanza, di questo fuoco di natura senza cui quaggiù non può crescere né vegetare nulla. Questo è lo spirito diffuso sulla superfice del globo, che l’artista sottile e ingegnoso deve catturare durante la sua materializzazione. Aggiungeremo ancora che occorre un corpo particolare che serva da ricettacolo, una terra attrattiva dove possa trovare un principio suscettibile di riceverlo e di ‘corporificarlo’. «La radice dei nostri corpi è nell’aria, dicono i saggi, e le loro cime stanno in terra». È il magnete racchiuso nel ventre di Ariete che va colto al momento della nascita, con destrezza e abilità.”.[2].

Fantastico: più mi capita di rileggerlo, e più ne ravviso la chiarezza esemplare e tradizionale. Ovviamente, val la pena di approfondire, studiando con cura anche il seguito.


[1] Vide Clangor Buccinæ, in Artis Auriferæ quam Chemiam Vocant, Basileæ – 1593, p. 503.

[2] Vide Fulcanelli, Il Mistero delle Cattedrali, Roma – 2005, p. 150.

Zì Baldone alchemico, ovvero lo Zabaglione dello Zibellino

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Primavera prepara quel che c’è da preparare ogni anno; che piova o tiri vento, scende l’Esprit che è un portento! … In quest’ottica di rilassato tempo d’attesa, leggo e rileggo quel che mi piace.

Ecco qualche scampolo, qualche spigolatura, di alcuni passaggi di pazzi-saggi che hanno ritenuto di lasciar tracce del loro riflettere e del loro maneggiar, com’è d’uopo e d‘uso in Alchimia. Ho tradotto velocemente, cercando di mantenere l’aderenza con il modo di scrivere dell’epoca, e – siccome mi paiono tutti belli ed interessanti – … mi asterrò dal commentarli, lasciando a chi vorrà leggerli l’onere e l’onore di gettare alle ortiche qualsiasi logica e razionalità; solo in absentia totale della ratio si potrà forse intravedere la luce di queste perline sfuse, gettate alla rinfusa. Quell’eventuale lucore che potrebbe apparire dopo un’intuizione da bimbi, dovrà poi essere passato all’onere della pratica, al forno.

Si tratta di un andare avanti & indietro, tra buoni libri e pratica di Laboratorio, un moto ripetuto e portato avanti ad ogni piè sospinto, con tenacia e gentilezza ed allegria: Madre Natura è sempre munifica verso che ha scelto di seguirla. Datevi il tempo per entrare nella mentalità di questi pazzi-saggi, che è enormemente lontana dalle nostre: tutto è semplice in Natura, ed ogni Cercatore – come si vedrà – deve per forza usare una sorta di auto-traduzione di ciò che ‘sente’ nel Cuore quando si contempla la bellezza inenarrabile dell’Alchimia. Ma tutti stanno parlando del medesimo ed unico modus operandi; ognuno farà il suo buon Zabaglione, e all’assaggio mostreranno spunti e punte di leggere sfumature; ma il Primum Ens dello Zabaglione è sempre e soltanto Uno. Come è Naturale che sia, no?

Ah, dimenticavo: … perché Zibellino? Risposta facile: è l’Hermine, una specie di martora (Martes Zibellina) dal pelo estremamente soffice; in Araldica l’Armellino è uno smalto simboleggiato da una curiosa puntinatura, di bianco moscata di nero. Voilà!

La Prassi (o Pratica, scegliete voi)

Prendi la Vergine alata ottimamente lavata & mondata, impregnata con il seme spirituale del primo maschio, gravida con gloria rifluente di intemerata verginità, le tinte guance emetteranno con colore purpureo: unisci quella con il secondo maschio senza sospetto d’adulterio, dal cui seme corporeo di nuovo concepirà, e partorirà infine una prole del sesso di entrambi da venerare, donde sorgerà una schiatta immortale di potentissimi Re.”

[Jean d’Espagnet – Arcanum Hermeticæ Philosophiæ Opus – Parisiis, 1623, Canone 58]

Prima Figura, Paragrafo primo, Spiegazione

Quando lo Spirito universale del mondo o della natura si è diffuso nel Fuoco centrale della la Terra e ha iniziato a lavorarvi, si trova legato ad una forma ed un aspetto umidi e liquidi mercuriali, ed espulso in avanti dall‘Archeo della terra come unaria impregnata, congelato da Saturno e, diventato in un certo qual modo il limo molto metallico che si chiama sperma dei metalli, gettato ai piedi dellartista il quale, avendolo riconosciuto come il più grande tesoro del mondo, lo porta con gioia a casa, l’introduce nella dimora di vetro, lo lega al Mercurio celeste, poi lo rinchiude. Sopra di lui spunta allora il corvo nero nella putrefazione, il quale, dopo la sua nuova nascita nel regno del Paradiso, si trasforma in Diana fissa e infine nel Figlio coronato del Sole.

[L’Enfant Hermaphrodite du Soleil et de la Lune – Mayence. 1752]

Nella sublimazione filosofica del Mercurio, ovvero prima preparazione, un Erculeo lavoro incombe su chi opera; infatti Giasone – senza Alcide – invano avrebbe tentato la spedizione Colchica;

Uno da una nota sommità mostrava la pelle dorata come Principio che tu possa prendere;

L’altro quanto fardello subisca.[1]

La soglia infatti viene custodita da bestie cornute, che respingono chi si avvicina avventatamente non senza danno; soltanto le armi di Diana & le colombe di Venere ammansiscono la loro ferocia, se il fato ti chiama.

[Jean d’Espagnet – Arcanum Hermeticæ Philosphiæ Opus – Parisiis, 1623, Canone 42]

Tuttavia fratello mio non devi pensare, né cadere nel sospetto, come hanno insegnato quei furfanti bugiardi, che il Mercurio e lo Zolfo siano la prima materia dei metalli: infatti nelle vene della terra, dove i metalli crescono, non si trovano né il Mercurio né lo Zolfo, perché li hanno semplicemente plasmati per [trarre in] inganno, come pure il fuoco elementare, detto Zolfo, e il liquore Mercurio. Allo stesso modo, hanno chiamato il fuoco elementare il nostro Sole e il liquore la nostra Luna, al solo scopo di ingannare la gente. E li hanno chiamati anche spirito e anima: difatti il fuoco elementare l’hanno chiamato anima, e il liquore elementare spirito, perché le cose elementari sono invisibili. Così tra lo spirito e l’anima non c’è differenza; infatti l’anima è fuoco invisibile e lo spirito umidità invisibile.

… tutte le cose sono state distribuite in tre nature; e sebbene queste tre nature dal punto di vista corporeo siano distinte in vegetale, animale e minerale, esse, pur sempre elementari, quindi occultamente, hanno avuto origine da una sola sostanza.

Tutte hanno una sola ed unica radice, dalla quale verdeggiano e crescono, che gli Antichi, per inganno, hanno chiamato prima materia o Hylé. Mentre non è altro che un fuoco elementare occulto, col proprio Liquore, che gli Antichi chiamarono umido radicale e non hanno parlato da inesperti: il Liquore infatti è la radice di ogni creatura.

[Via Veritatis Unicæ, in Musæum Hermeticum – Francofurti, 1671]

Quindi, quando le tue materie sono unite, che sono il nostro e il nostro , non pensare come molti Alchimisti vanamente immaginano, che il morire del sole seguirà immediatamente, certamente no, noi abbiamo aspettato per un lungo e noioso periodo, prima che fosse fatta la riconciliazione tra l’acqua e il fuoco; e questo gli invidiosi hanno misticamente compreso in un breve discorso, quando al primo inizio del loro lavoro hanno chiamato la loro Materia Rebis, ossia fatta di due sostanze, secondo il Poeta,

Rebis sono due cose unite, eppure è una sola,

Dissolta, affinché Sole o Luna siano soltanto Sperma.

Sappi dunque una indubbia verità, che sebbene il nostro divori il Sole , non lo fa come i Chimici Fantastici sognano, perché anche se il si unisce col nostro , dopo un anno li separerai l’uno dall’altro nella loro propria natura a meno che tu li cuocia insieme in un conveniente grado di fuoco, altrimenti non saranno alterati; chi affermerà il contrario non è un Filosofo.

[Philalethe – Secrets Reveal’d – London, 1669, Chap. 24]

“ ‘Ti ho detto di purificare con somma cura questo canestro bianco con la lisciva donata, che è estratta da essa e non questo straccio che va asportato e che è crudo, ma prima è necessario che tu lo bruci con il fuoco dei sapienti, & allora la cosa riuscirà felicemente’: a tal fine, mi diede delle braci coperte di seta bianca, con ulteriore spiegazione, cosicché da queste braci dovevo eccitare il fuoco Filosofico, interamente artificioso, & bruciare lo straccio da asportare; e allora subito il canestro bianco che dovevo trovare mi sarebbe [apparso].

[Adrian von Mynsicht (alias Madathanus) – Aureum Seculum Redivivum – Francofurti, 1677]

Abbiamo detto, e lo ripetiamo, che l’oggetto della dissoluzione filosofica è l’ottenimento dello zolfo che, nel Magistero, gioca il ruolo di formatore coagulando il mercurio chi gli è aggiunto, proprietà che trae dalla sua natura ardente, ignea e disseccante. «Ogni cosa secca beve avidamente il suo umido», dice un vecchio assioma alchemico. Ma questo zolfo, al momento della sua prima estrazione, non è mai spoglio del mercurio metallico col quale costituisce il nucleo centrale del metallo, chiamato essenza o seme. Da qui risulta che lo zolfo, conservando le qualità specifiche del corpo dissolto, non è in realtà che soltanto la parte più pura e più sottile di questo corpo stesso. Di conseguenza, abbiamo il diritto di considerare, con la pluralità dei maestri, che la dissoluzione filosofica realizza la purificazione assoluta dei metalli imperfetti. Ora, non vi è esempio, spagirico o chimico, di un’operazione suscettibile di dare un tale risultato. Tutte le purificazioni di metalli trattati con metodi moderni non servono che a sbarazzarli delle impurità superficiali meno tenaci. E queste, portate della miniera o conseguenti alla riduzione del minerale, sono generalmente poco importanti. Al contrario, il procedimento alchemico, dissociando e distruggendo la massa di materie eterogenee fissate sul nucleo, costituito da zolfo e di mercurio molto puri, rovina la maggior parte del corpo e la rende refrattaria a ogni riduzione ulteriore.

Ma ciò che distingue la soluzione filosofica da tutte le altre, e le assicura perlomeno una reale originalità, è che il dissolvente non si assimila al metallo basico che gli è offerto; ne allontana soltanto le molecole, per rottura di coesione, s’impadronisce delle parcelle di zolfo puro che possono trattenere e lasciano il residuo, formato dalla maggior parte del corpo, inerte, disgregato, sterile e completamente irriducibile. Non si saprebbe dunque ottenere con esso un sale metallico, come si fa per mezzo degli acidi chimici. Del resto, conosciuto dall’antichità, il dissolvente filosofico non è stato mai utilizzato che in alchimia, da manipolatori esperti nella pratica del giro di mano speciale che esige il suo uso. è lui che i saggi hanno in vista quando dicono che l’Opera si fa con una cosa unica. Contrariamente ai chimici e spagiristi, i quali dispongono di una raccolta di acidi diversi, gli alchimisti non possiedono che un solo agente, che ha ricevuto quantità di nomi diversi, di cui ultimo in data è quello di Alkaest.

[Fulcanelli, Les Demeures Philosophales – Paris, 1964, Tome II]


[1] Si tratta di una citazione dalla Chrisopœia di Augurellus, al Libro II: “Alter in auratam nota de vertice pellem / Principium velut ostendit, quod sumere possis; / Alter onus quantum subeas.