“La Bugia” del Marchese Palombara … 3


Continuiamo l’esame della Parabola del buon Marchese.

Lieto per vedere che la mia operazione con l’aiuto di Dio camminava di bene in meglio, mi venne pensiero di prendere altre vie per pascere l’animo d’altre vedute, per sollevare la mente affaticata nei studi.”.

Questo innocente ‘cappellino’ di Palombara, dovrebbe/potrebbe avvisare lo studente studioso: ‘altre vie’, dice.

Ciò detto, il nostro lascia le colline e si reca verso il mare ‘con la sua vastità ed apertura dell’aria’; raggiunge uno scoglio sulla riva: ed ecco che dalle onde vede uscire una ‘locusta’; dall’incisione che accompagna questa parte del testo si vede bene che si tratta di un granchio,  ‘tutta affamata e presciolosa, mostrando un’interna passione e melanconia nell’animo, con cortese inchino mi salutò ed aperta una piccola scarsella che le pendeva dal fianco cava da quella una piccola lettera o viglietto e me lo consegna.’.

Sul bigliettino si legge: “PIX ALBA AMARA LUMINIS UMI”, che è evidentemente un acrostico di ‘Maximilianus Palombara’; più operativamente, il buon Marchese sostiene: “… additandomi brevemente con la materia tutta l’operazione, mentre effettivamente tutto il principio della seconda operazione, che è il fine della prima, non è altro in effetto che una pece bianca ed amara del lume della terra.”; leggere bene, meditare con calma … e stare accuorti, eh? Suggerisco di notare che si tratta del Lumen e non proprio della Lux.

Conscio di aver tirato un sassetto in piccionaia, il buon Marchese alza la posta: “Amara, dico, perché ancora non è perfetta né affatto concotta o matura, essendo un estratto o quinta essenza o splendore cavato dalla terra dei filosofi detta Saturno, o Latona o Sole non depurato che, giunto a questo segno, vien chiamato con il suo primo nome Giove.”. Naturalmente dice bene, e non mente … Anche se mi par di percepire un rapidissimo batter di palpebre, con l’inarcar del ciglio … c’è dell’altro, infatti.

Poscia osservo il sigillo di essa (i.e., della lettera/viglietto) che era una fiamma, benché voltata all’ingiù verso la terra, tanto conforme al suo naturale, tendeva verso il cielo.”. … Ah, però! Carina questa, no?

La missiva, una volta aperta, reca una firma “La sirena del Mar Negro”. Se è firma, essa è ferma, e dunque chiude … cosa? Aperte le danze in modo così perfettamente acconcio, sicuro di risvegliare l’attenzione persino del più distratto dei casuali lettori, Palombara riassume il testo del ‘viglietto’: siccome il Re che si cerca non riusciva a sopportare il gran caldo, una notte era sceso a bagnarsi e restò accidentalmente annegato; si trattava per il nostro di attendere che le onde lo portassero a galla, certo ‘estinto’, ma lacero e putrefatto. Il viglietto raccomandava al cercatore il ‘regio cadavere’ e che ‘se avesse saputo operare con i modi magici, gli sarebbe stato facile, pur morto, di riportarlo in vita.’. Così, il Marchese aspetta sullo scoglio, poi la superfice del mare cambia colore (!) e vede ‘avvicinarsi un cadavere … sformato dal suo essere, e quasi disfatto…’; il Marchese lo afferra per un braccio … ma si accorse subito ‘d’aver alzato dal mare un pezzo di sottil pelle priva di tutte l’ossa, di tutte l’interiora e carne.’. Il mare torna calmo e Palombara ripone la pelle in un guscio di testuggine (‘testudine marina’) trovata sulla spiaggia, si avvia a ritornare, ma il mare si agita di nuovo; ed emerge di nuovo il cadavere del Re, ma con il braccio di nuovo ricoperto di pelle; stupito, stende la mano e ne ritrae un altro pezzo di pelle, che mette assieme alla precedente; la scena e la raccolta si ripete altre due volte. Poi il cadavere non tornò più a galla. Mentre risale verso il luogo da dove era venuto, sempre portando con sé la testuggine piena di pelle raccolta, si accorge che stava arrivando un gruppetto di gente; per paura di venir accusato di aver ucciso il Re, il Marchese si nasconde tra le rovine nelle vicinanze: senza esser visto, capisce che si tratta di un gruppo di filosofastri che discettano della materia con cui comporre la Pietra.

Ed ecco che con grande stridore e strepito si apre a stento una porticina: ne esce ‘una vecchia donna di bello aspetto, ma carica d’anni infiniti, dalla quale ne uscivano alcuni raggi di sole, ed appoggiava l’antiche membra sopra di un bastone, nella cima del quale vi era una mezzaluna.’. La vecchia gli chiede che cosa stesse facendo lì, e Palombara le racconta di aver la pelle del Re con sé; la Natura – perché lei è Natura; chi altra poteva essere? – se ne rallegra molto e gli dice che era davvero fortunato; lui chiede se quella pelle fosse proprio di quel Re tanto cercato da tutti; risposta: ”Sappi che quella pelle, benché insanguinata e sozza, è la parte più nobile del Sole, e che fa  per il tuo mestiero e che insieme fa il tutto, né mi meraviglio che ciò ti apporti meraviglia, poiché questo è un Re a pochi del mondo noto, benché da tutti sia veduto, ed è forte, gagliardo, potente, che resiste al foco, al freddo e ad ogni intemperie più d’ogni altro, e ciò lo puoi da te medesimo argumentare dalla fatica che hai avuto in spogliarlo delle sue ossa, ancor che fosse dal mare putrefatto, che sebbene è morto risorgerà qual novella fenice se sarai prudente. Sì che sappi che sebbene il mare gli dié la morte con annegarlo, quello li dié prima la vita, poiché da quello nacque essendoli madre e genitrice, la quale, sebbene sa che deggia risorgere trionfante, con tuttociò come pietosa al parto dalle sue viscere non puol celare il suo dolore, dandone segno con oscurarsi e vestirsi di lutto tra i singulti e li pianti sì come averai veduto. Conserva dunque questa pelle, e serviti della sua madre, mentre quel medesimo mare che dopo la vita li dié la morte, è disposto di novo a porgergli miglior vita con eternarlo, e regolati con prudenza, pazienza, e secretezza.”. La vecchia se ne va, ed il Marchese se ne torna a casa, ‘carico della ricca e preziosa preda’.

Una favola cruda, certo, ma bella, no? Si direbbe un racconto classico, un’allegoria ritrovata decine di volte nei buoni testi d’Alchimia. Eppure, a ben leggere, si coglie tra le righe qualche piccolo particolare di un certo interesse; nulla di veramente rivoluzionario, ma che colui che si ritrovasse avanzato lungo il cammino operativo non faticherà a riconoscere;

L’immagine che emerge appare infatti quasi come un dagherrotipo, dai colori così sfumati, dolcemente sbiaditi, caratteristici, affascinante: come sempre, gran parte dei lettori vi troverà pane per i loro Simbolici dentini; ma è davvero ridicolo affermare che l’Alchimia – grazie a brani come questo – possa mai esser un’Arte ed una Pratica di natura simbolica, non credete?

La fase operativa riguarda Latona, naturalmente; e, più in generale, ciò che si chiama ‘purificazione’. Ma prima di ‘purificare’ occorre evidentemente prima disporre di quel corpo; poi, memori di quanto riportato nel passo di cui ho parlato in precedenza (qui), disporre del corpo che lo potrà purificare; infine, con una certa manualità, effettuare la ‘dealbatio’, lo sbiancamento di Latona. A proposito del brano precedente, invito ancora a studiarlo al meglio, riflettendo. Non poco; molto: melius abundare quam deficere, eh?

Quanto a Latona, Maier – citando il Clangor Buccinæ – recita: “È un corpo imperfetto composto da sole e luna”; ma, prosegue Maier, Latona – secondo Poeti e scrittori antichissimi – è madre del sole e della Luna, ovvero di Apollo & Diana, altri ne fanno la nutrice; Diana nasce per prima (Luna, e l’albedo, infatti appare per prima), e Diana sarà la levatrice di Apollo.

Per chi fosse proprio curioso, riporto il passo: “Dealbate ergo Latonem: idest, æs cum Mercurio, quia Latone est ex Sole & Luna compositum corpus imperfectū citrinum: quod cùm dealbaueris, & per diuturná decoctione ad pristinam citrinitatem perduxeris, habes iterū Latonem eodem modo ductibilé, & ad quantitatem tibi placitam: tunc intrasti per ostium, & habes artis principium.[1].

Come ha scritto il buon Marchese poco sopra (“… terra dei filosofi detta Saturno, o Latona o Sole non depurato che, giunto a questo segno, vien chiamato con il suo primo nome Giove”), qualcuno potrebbe cadere nel dubbio: nel Mito, Latona è la madre di Febo ed Artemide, il cui padre è Giove, la cui sposa è Era; insomma Giove, attratto dalla gran beltà di Latona, si congiunge con lei di nascosto dalla ovviamente gelosa Era (la quale farà inseguire Latona dal serpente Pitone, per ogni dove). Latona, fra l’altro, è una Titanide, figlia di Febe e Ceo, a loro volta figli di Urano e Gea; perché mai, dunque, Palombara allude al ‘primo nome Giove’? Mettendo per un attimo da parte la genealogia proposta nel Mito, Sir Isaac Newton potrebbe aiutarci un tantino: nel suo Index Chemicus, una sorta di gran taccuino in cui annotava gli appunti frutto dei suoi studi alchemici, alla voce Jupiter Philosophorum, scrive:

Jupiter Philosophorum, qui a juvando dictus est ac de quo tot fabulæ introductæ sunt, non est Jupiter vulgi sed subjectum philosophicum, ex quo omnis tinctura petenda est, materia philosophica quæ in Aquilæ forma Ganimedem in Cælum evexit, quæ in aurum mutata Danaæ in gremium decidit, quæ sub forma Cygni albi Lædam compressit, etc. Nisi enim ad volatum sit idonea aut ad lapsum suo pondere apta materia, non est Jovis nomine digna cum ne minimum juvare possit Artificem sed plurimum morari.”.

La facile traduzione del suo Latino seicentesco ci fa sorridere per l’acutezza e l’intuizione, ma è – soprattutto, credo – piuttosto interessante: il ‘Sole non depurato’ a questo punto delle operazioni prende – nell’opinione del Marchese – … il nome del focoso amante di Latona, cioè ‘Giove’ (o Jupiter Newtoniano che dir si voglia). Nomen est Omen, no?

Ora, relativamente all’evidente necessità delle ripetizioni della ‘raccolta’ di ciò che Palombara chiama ‘pelle’, ricordo quante e quante volte io ed il buon Fra’ Cercone ci siamo interrogati su questa famosa frase di Fulcanelli:

C’est cet esprit, répandu à la surface du globe, que l’artiste subtil et ingénieux doit capter au fur et à mesure de sa matérialisation.”.

Fulcanelli si riferisce a questo medaglione del Porche Central di Notre-Dame de Paris:

la cui didascalia recita: “I materiali necessari all’elaborazione del solvente.

Ecco il primo paragrafo del commento di Fulcanelli, nella traduzione di Paolo:

Il nono soggetto ci permette di penetrare più a fondo il segreto della fabbricazione del Dissolvente universale. Una donna indica – allegoricamente – i materiali necessari alla costruzione del vaso ermetico; tiene alta una tavoletta di legno che assomiglia ad una doga di botte, la cui essenza ci è rivelata dal ramo di quercia che adorna lo scudo. Ritroviamo qui la sorgente misteriosa scolpita sul contrafforte del portico, ma il gesto del nostro personaggio tradisce la spiritualità di questa sostanza, di questo fuoco di natura senza cui quaggiù non può crescere né vegetare nulla. Questo è lo spirito diffuso sulla superfice del globo, che l’artista sottile e ingegnoso deve catturare durante la sua materializzazione. Aggiungeremo ancora che occorre un corpo particolare che serva da ricettacolo, una terra attrattiva dove possa trovare un principio suscettibile di riceverlo e di ‘corporificarlo’. «La radice dei nostri corpi è nell’aria, dicono i saggi, e le loro cime stanno in terra». È il magnete racchiuso nel ventre di Ariete che va colto al momento della nascita, con destrezza e abilità.”.[2].

Fantastico: più mi capita di rileggerlo, e più ne ravviso la chiarezza esemplare e tradizionale. Ovviamente, val la pena di approfondire, studiando con cura anche il seguito.


[1] Vide Clangor Buccinæ, in Artis Auriferæ quam Chemiam Vocant, Basileæ – 1593, p. 503.

[2] Vide Fulcanelli, Il Mistero delle Cattedrali, Roma – 2005, p. 150.

5 Responses to ““La Bugia” del Marchese Palombara … 3”

  1. Caro Capitano,

    ultimamente mi son fatto l’idea che la via tanto breve non è, secca si …. .
    Dando per scontato l’incontro delle due nature antagoniste, ad esempio del leone(terra) con l’aquila (cielo, aria).
    Prima d’ottenere la pace (pietra astrale bianca), questi due hanno bisogno d’icontrarsi tante volte, tanti lavaggi (ignei), prima che la pietra diventi bianca, almeno 7 aquile.
    Il grifone, ne è il risultato.
    Un risultato; è anche la cesta di Bacco con il pesce.
    Due cose mischiate, e da cui bisogna portare fuori la parte più pura.
    Ora mi viene in mente che potrebbe essere come un albero (quercia) con i suoi frutti. Frutti non proibiti, ma che si gustano a tarda età.
    Come da tradizione è lo spirito che galleggia ancora sulle acque, e che bisogna estrarre.
    Spiritus Domini ferebatur super aquas.

    Una terra fecondata, nella quale regna ancora la confusione; una sostanza che trattiene in sé la luce sparsa, che l’arte deve riunire ed isolare imitando il Creatore. Noi dobbiamo decomporre e mortificare questa terra, o ciò che è lo stesso, uccidere il drago e pescare il pesce, separare il fuoco dalla terra, il sottile dal grossolano, dolcemente con grande abilità e prudenza, secondo quanto insegna Ermes nella sua Tavola di Smeraldo.” Fulcanelli DF, p. 163.

    Quando l’artista pesca il pesce mistico, e lascia l’acqua vuota, inerte, senz’anima: si dice che l’uomo con quest’operazione, uccide il grifone.

    E questo è un enigma.
    Fulcanelli fa notare che nell’etimologia del nome grifone, vi sia ‘Enigma‘ e ‘Rete‘.
    La sostanza profondamente nascosta nel corpo, deve essere presa come un pesce nell’acqua, con l’aiuto di una rete appropriata. Qualcuno dice che è bene comunque tenerlo in acqua e accudirlo.

    Poi Fulcanelli informa gli studenti di secondo grado, con la parola del Vangelo:
    State dunque molto attenti al modo con cui ascoltate, perché sarà dato ancora a chi già possiede; e a colui che non ha nulla, sarà levato anche quello che crede di possedere.

    Volevo ricollegarmi con la Bugia di Massimiliano Palombara, ma non ci sono riuscito.
    Magari alla prossima .

    Cari saluti a tutti
    Gianni

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    • Caro Signor Gianni,

      grazie, come sempre, per il suo commento.
      Da quel che leggo, ritengo che Lei stia consultando Le Dimore Filosofali, al Vol. 1: purtroppo – e me ne sono accorto solo molti anni dopo aver letto e studiato i due volumi per la prima volta – la traduzione Italiana è – in molti passaggi per così dire ‘delicati‘ – veramente inaffidabile: a titolo di esempio le riporto la mia personale e rapida traduzione del passo che Lei ha citato, dall’Edizione Francese:

      Poiché la materia preparata, la quale contiene tutti gli elementi necessari alla nostra grande operazione, non è che una terra fecondata dove regna ancora qualche confusione; una sostanza che racchiude in sé la luce sparsa, che l’arte deve riassemblare ed isolare imitando il Creatore. Questa terra, la dobbiamo mortificare e decomporla, ciò che è come dire uccidere il grifone e pescare il pesce, separare il fuoco dalla terra, il sottile dallo spesso, «dolcemente, con grande abilità e prudenza», come insegna Ermete nella sua Tavola di Smeraldo.”
      Sottolineo che è il Grifone che l’artista, in questa specifica operazione, deve uccidere; non il Drago.
      La distinzione forse le potrebbe apparire pedante, ma vi è una sottile differenza tra Drago e Grifone, oggettiva, pratica.

      Se poi riuscirà a ricollegarsi al passo del Marchese Palombara, sarò felice di leggerLa ancora!

      Sempre di buon cuore,
      Captain NEMO

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      • Caro Capitano,

        grazie per la precisazione, non sapevo di questo errore di traduzione, in effetti mi suonava male (il drago al posto del grifone), per di più in un momento di accordo, tra il cielo (aria) e la terra.

        Quando Palombara dice, “di bene in meglio “, alludeva a questo momento.
        È un momento di pesca.
        Il re deve essere pescato, man mano che affiora con una appropriata reticella .

        Fulcanelli descrive questa reticella, parlando della focaccia dell’Epifania.

        Si era sorpreso nel vedere al posto delle incisioni a losanga, che venivano usate normalmente sopra la pasta della focaccia; una quercia che allargava i suoi rami.

        Massimiliano Palombara recupera il re attraverso il suo braccio, per ben due volte, rimarcandone così l’importanza.

        Mi è sembrato di vedervi una corrispondenza, tra i rami di una quercia e il braccio del re; hanno tutti e due questo andamento a losanga, ad angolo, e quasi una rete.

        Mi viene in mente che anche il ramo d’oro di Enea abbia il suo perché, con il segno a Y.

        «La radice dei nostri corpi è nell’aria, dicono i saggi, e le loro cime stanno in terra».

        Ramo = parte dell’albero, che si stacca dal tronco, a guisa di braccio. Dal greco (Àdamnos). (v. Radice).

        Ma comunque potrebbe essere una semplice coincidenza, in fondo tante cose sono meravigliose.

        Sicuramente Massimiliano Palombara non sfigura tra i filosofi ermetici, segno evidente che anche in Italia vi era qualcosa.

        Io ahimé, possiedo solo la versione tradotta in italiano .

        La Pietra non è Pietra, e pur è Pietra
        E si trova nel mar che non è mare
        Et ivi nota, e pur non sà notare
        E l’huom la segue, e pur da lei s’arretra.

        E negra e bianca e rossa e bella e tetra
        Si trova e pur non trovasi a comprare
        E ben ch’è vile, è tra le cose care
        Essendo un Ciel che sol dal Ciel s’inpetra.

        Ogniuno n’ha, nessuno la possiede
        Da noi sta lungi e pur ci sta vicina
        E l’occhio l’ha davanti e non la vede.

        Sta sopra un Colle, e quel non è Collina
        Vive in un Monte e in quello non risiede;
        Fortunato è colui che l’indovina.

        Enigma Filosofale

        Pag.110 , Sonetti

        Cari Saluti
        Gianni

        Comunque sarebbe bello l’intera traduzione dei due volumi delle Dimore Filosofali

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  2. Nota:
    mi sono accorto solo dopo che, parlando del ramo, ho scritto dal greco “Àdamnos”, ricopiando male; invece era “Ràdamnos”.
    Avevo pensato subito ad “Adamo”.
    Il primo “Adamo” era l’essere androgino.

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  3. Caro Capitano,

    innanzitutto, grazie per i suoi preziosi insegnamenti.

    Portando avanti lo studio de Il Mistero delle Cattedrali, ho rintracciato un’associazione con questa frase: ‘una vecchia donna di bello aspetto, ma carica d’anni infiniti, dalla quale ne uscivano alcuni raggi di sole, ed appoggiava l’antiche membra sopra di un bastone, nella cima del quale vi era una mezzaluna’. Fulcanelli (se non erro nel primo Capitolo dell’opera, al paragrafo V), descrivendo la pavimentazione della cattedrale di Amiens – sulla quale sono incisi i tipici motivi labirintici di molte cattedrali – si sofferma sulla raffigurazione (ormai perduta) di una verga d’oro e di un semicerchio dello stesso metallo, emblema del levarsi del Sole sull’orizzonte. Il bastone e la mezzaluna sono la verga e il semicerchio di Amiens? Ad accompagnare entrambe le situazioni, inoltre, troviamo lo stesso soggetto: il Sole (i suoi raggi che escono dalla vecchia donna e il suo levarsi sull’orizzonte).

    Un caro saluto
    Madame S.

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